Cirillo di Gerusalemme: Il Padre nostro

Recitando poi la preghiera che il Salvatore lasciò ai suoi discepoli, diamo con pura coscienza a Dio il nome di Padre, dicendo: «Padre nostro che sei nei cieli».

O somma misericordia di Dio! A tal punto accorda perdono totale e comunione di grazia da farsi chiamare padre da chi l’ha abbandonato commettendo i più gravi peccati: nell’espressione «Padre che sei nei cieli», per cieli possiamo intendere anche gli uomini che portano in sé l’immagine dell’uomo celeste, in cui egli abita e con cui cammina.

Preghiamo: «Sia santificato il tuo nome». Il nome di Dio è per natura santo, sia che lo diciamo sia che non lo diciamo; poiché però tra i peccatori c’è chi talora lo profana, secondo il detto biblico: «Per causa vostra il mio nome è bestemmiato tra le genti», noi domandiamo che sia santificato il nome di Dio. Preghiamo così non già perché esso non sia santo o possa passare dal non essere santo ad essere santo, ma perché diventi santo in noi, che ci santifichiamo con opere degne della sua santità.

Venga il tuo regno! È dell’anima pura pregare con tutta libertà: «Venga il tuo regno». Può così pregare chi, avendo compreso le parole di Paolo: «Che il peccato non regni nel vostro corpo mortale», si sia conservato puro nelle opere, nei pensieri e nelle parole.

Preghiamo poi: «Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra». Fare la volontà di Dio è proprio dei divini e santi angeli di Dio, secondo dice Davide nel salmo che canta: «Benedite il Signore, voi tutti suoi angeli, potenti esecutori dei suoi comandi». Prega quindi con la stessa intensità, dicendo: «Come tra gli angeli si compie la tua volontà, Signore, così anche sulla terra essa sia fatta in me».

Dicendo: «Dacci oggi il nostro pane soprasostanziale», chiediamo non il pane che comunemente impastiamo, ma quello santo, soprasostanziale in quanto ordinato a sostentare la sostanza dell’anima. Esso non va a finire nel ventre per esserne poi espulso, ma va ad alimentare ogni tua struttura, dell’anima e del corpo, per l’oggi di cui parla Paolo che dà all’espressione «quotidiano» il senso di una durata «fino al tempo in cui dura quest’oggi»

Aggiungiamo: «E rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori». Commettiamo infatti tante colpe, in parole, in pensieri e in tante opere meritevoli di condanna; come dice Giovanni, «se diciamo di non aver peccato, mentiamo»! Pregando Dio che perdoni a noi come anche noi rimettiamo i debiti del prossimo, noi col Signore facciamo un patto di mutuo perdono, vantaggioso per noi. Commisurando l’utile che ne ricaviamo con quello che diamo in cambio, non c’è da esitare o tergiversare; perché le offese degli altri nei nostri riguardi sono ben poca cosa, leggere e veniali, rispetto alle colpe gravi da noi commesse contro Dio, imperdonabili se non intervenisse la sua misericordia. Bada dunque a te! Per avere ricevuto delle offese piccole e leggere, non chiudere la porta al perdono di Dio per i tuoi gravissimi peccati.

Quando poi il Signore ci insegna a pregare: «E non c’indurre in tentazione», vuole forse dirci di pregare perché non siamo mai tentati? Come mai allora altrove ha potuto dire: «Chi non ha avuto delle prove, poco conosce», e di nuovo: «Considerate, fratelli, perfetta letizia quando subite ogni sorta di prove»? Ma entrare in tentazione vuol dire forse esserne sommersi? No, la tentazione è come un torrente che è difficile attraversare: gli uni, lungi dal venirne sommersi, diventano attraversandolo, valenti nuotatori – quelli che non si fanno trascinare dalle tentazioni –; gli altri si comportano in maniera opposta, e appena entrati ne sono sommersi. Così per esempio Giuda, entrato in tentazione d’avarizia, non seppe nuotare e ne rimase sommerso, affogando materialmente e spiritualmente; Pietro invece, entrato in tentazione di rinnegamento, non se ne fece sommergere appena entrato, ma riuscì con coraggio a nuotare e a vincere la prova. Ascolta ancora un altro passo, dove il coro dei santi vittoriosi ringrazia Dio di essere scampato alla tentazione: «Dio, tu ci hai messo alla prova e ci hai passati al crogiuolo come l’argento; ci hai fatto cadere in un agguato e hai messo un peso ai nostri fianchi facendo cavalcare uomini sulle nostre teste; ci hai fatto passare per il fuoco e per l’acqua, ma poi ci hai sospinto verso il refrigerio». Vedi con quanta fiducia parlano, dal momento che hanno potuto subire i marosi della tentazione senza rimanerne sommersi? Dicono: «Tu ci hai sospinto verso il refrigerio». Giungere al luogo del refrigerio vuol dire essere stati liberati dalla tentazione.

Se l’espressione «non c’indurre in tentazione» fosse da intendere come preghiera di non essere tentati, Gesù non l’avrebbe concluso dicendo: «Ma liberaci dal maligno». L’avversario da cui preghiamo d’essere liberati è il maligno, il demonio. L’amen finale che chiude come con un sigillo l’orazione, vuol dire: «Si compia tutto quello che il Signore ci ha insegnato a chiedere in questa orazione».


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