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CONCILIO DI NICEA

Convocato dall’imperatore Costantino nel 325 a Nicea. A questo concilio ecumenico parteciparono 318 padri. Erano invitati tutti i vescovi della cristianità, mentre l’Imperatore si è fatto carico delle spese, ma dall’Europa occidentale vennero soltanto 4 o 5 vescovi; lo stesso vescovo di Roma non partecipò personalmente, ma mandò 2 sacerdoti a rappresentarlo. La maggioranza vennero dalle città Elleniche o ellenizzate. Fra questi si distinguevano il vecchio Alessandro, Vescovo di Alessandria, accompagnato dal suo giovane consigliere Atanasio. Costantino partecipò nelle discussioni, come dice Eusebio: “parlando greco perché non era estraneo a questa lingua”. I vescovi si incontrarono nella metà di giugno del 325, ma la riunione ufficiale si tenne il 5 o 6 di luglio. L’incontro durò 20 giorni e risolse la questione del rapporto fra il Padre ed il Figlio usando il termine “omoousios” (consustanziale)

Sant’Atanasio il Grande, Il Concilio di Nicea

“Anche i giudei infatti, [come gli ariani ndr] confutati dalla verità e incapaci di guardarla in faccia, dicevano pretestuosamente: Che segno fai, perché vediamo e crediamo in te? Che opera fai? Eppure già erano stati fatti molti segni, al punto che essi stessi dicevano: Che cosa facciamo, poiché quest’uomo fa molti segni? In effetti, c’erano morti che risuscitavano, storpi che camminavano, ciechi che vedevano, lebbrosi che venivano purificati; inoltre, una volta l’acqua venne cambiata in vino e da cinque pani vennero sfamati cinquemila uomini. Tutti erano
nella meraviglia e adoravano il Signore, riconoscendo che in lui si erano adempiute le profezie e che egli stesso era Dio, Figlio di Dio. Soltanto i farisei, anche se i segni apparivano più splendenti del sole, di nuovo mormoravano da ignoranti e dicevano: ·Perché tu, che sei uomo, ti fai Dio?·. Insensati e veramente ciechi nella mente! 5. Avrebbero invece dovuto dire: •Perché tu, che sei Dio, ti sei fatto uomo?•. Le opere infatti mostravano che egli era Dio, ed essi avrebbero dovuto adorare la bontà del Padre e ammirare la disposizione da lui attuata a causa nostra. […]

Come gente empia, che ama contestare e cerca di opporsi a Dio, quelli [gli ariani ndr] proferivano parole piene di empietà. I vescovi invece, che si erano radunati in numero più o meno di trecento, con atteggiamento mite e benevolo chiedevano loro di dare ragione di quanto dicevano e [di fornire] dimostrazioni conformi alla retta fede. Ma poiché anche solo ad aprir bocca si condannavano e disputavano tra di loro, vedendo l’estremo imbarazzo della loro eresia, rimasero senza parola, e con il loro silenzio confermavano la vergogna insita nella loro cattiva dottrina. I vescovi allora, annullando le parole escogitate da quelli, esposero contro di essi la sana fede della Chiesa. Tutti, anche quelli della cerchia di Eusebio, sottoscrissero quelle parole, di cui ora questi si lamentano. Mi riferisco a “dalla sostanza” (ek tes ousias) e “consostanziale” (homoousios), con cui si esprime che il Figlio di Dio non è creatura od opera, né è una delle realtà divenute, ma che il Logos è generato dalla sostanza del Padre”.

Concilio di Nicea I - Wikipedia

I TESTI CONCILIARI

PROFESSIONE DI FEDE DEI 318 PADRI

Crediamo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore di tutte le cose visibili ed invisibili. Ed in un solo Signore, Gesù Cristo, figlio di Dio, generato, unigenito, dal Padre, cioè dalla sostanza del Padre, Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato non creato, della stessa sostanza del Padre [secondo i Greci: consustanziale], mediante il quale sono state fatte tutte le cose, sia quelle che sono in cielo, che quelle che sono sulla terra. Per noi uomini e per la nostra salvezza egli discese dal cielo, si è incarnato, si è fatto uomo, ha sofferto e risorse il terzo giorno, salì nei cieli, verrà per giudicare i vivi e i morti. Crediamo nello Spirito Santo.

Ma quelli che dicono: Vi fu un tempo in cui egli non esisteva; e: prima che nascesse non era; e che non nacque da ciò che esisteva, o da un’altra ipostasi o sostanza che il Padre, o che affermano che il Figlio di Dio possa cambiare o mutare, questi la chiesa cattolica e apostolica li condanna.

CANONI

I. Di quelli che si mutilano o permettono questo da parte di altri su se stessi.

Se qualcuno, malato, ha subito dai medici un’operazione chirurgica, o è stato mutilato dai barbari, può far parte ancora del clero. Ma se qualcuno, pur essendo sano, si è castrato da sé, costui, appartenendo al clero, sia sospeso, e in seguito nessuno che si trovi in tali condizioni sia promosso allo stato ecclesiastico. E’ evidente, che quello che è stato detto riguarda coloro che deliberatamente compiono una cosa simile e osano mutilare se stessi ma se qualcuno, fosse stato castrato dai barbari o dai propri padroni, ma fosse degno sotto ogni aspetto, i canoni lo ammettono nel clero.

II. A coloro che dopo il battesimo sono subito ammessi nel clero.

Poiché molte cose per necessità, o sotto la pressione di qualcuno, sono state fatte contro le disposizioni ecclesiastiche, sicché degli uomini, venuti da poco alla fede dal paganesimo e istruiti in breve tempo, sono stati subito ammessi al battesimo e insieme sono stati promossi all’episcopato o al sacerdozio, è sembrato bene che in futuro non si verifichi nulla di simile: è necessario del tempo, infatti, a chi viene catechizzato, ed una prova più lunga dopo il battesimo. E’ chiara infatti, la parola dell’apostolo: (il vescovo) non sia un neofita, perché non gli accada di montare in superbia e di cadere nella stessa condanna (1).

Se poi col passar del tempo si venisse a scoprire qualche colpa commessa da costui e fosse accusato da due o tre testimoni, questi cesserà di far parte del clero. Chi poi osasse agire contro queste disposizioni e si ergesse contro questo grande sinodo, costui metterebbe in pericolo la sua stessa dignità sacerdotale.

III. Delle donne che vivono nascostamente con i chierici.

Questo grande sinodo proibisce assolutamente ai vescovi, ai sacerdoti, ai diaconi e in genere a qualsiasi membro del clero di tenere delle donne di nascosto, a meno che non tratti della propria madre, di una sorella, di una zia, o di persone che siano al di sopra di ogni sospetto.

IV. Da quanti debba essere consacrato un vescovo.

Si abbia la massima cura che un vescovo sia istituito da tutti i vescovi della provincia. Ma se ciò fosse difficile o per sopravvenute difficoltà, o per la distanza, almeno tre, radunandosi nello stesso luogo, e non senza aver avuto prima per iscritto il consenso degli assenti, celebrino la consacrazione. La conferma di quanto è stato compiuto è riservata in ciascuna provincia al vescovo metropolita.

V. Degli scomunicati: che non siano accolti da altri; e dell’obbligo di tenere i sinodi due volte all’anno.

Quanto agli scomunicati, sia ecclesiastici che laici, la sentenza dei vescovi di ciascuna provincia abbia forza di legge e sia rispettata la norma secondo la quale chi è stato cacciato da alcuni non sia accolto da altri. E’ necessario tuttavia assicurarsi che questi non siano stati allontanati dalla comunità solo per grettezza d’animo o per rivalità del vescovo o per altro sentimento di odio.

Perché poi questo punto abbia la dovuta considerazione, è sembrato bene che in ogni provincia, due volte all’anno si tengano dei sinodi, affinché tutti i vescovi della stessa provincia riuniti al medesimo scopo discutano questi problemi, e così sia chiaro a tutti i vescovi che quelli che hanno mancato in modo evidente contro il proprio vescovo sono stati opportunamente scomunicati, fino a che l’assemblea dei vescovi non ritenga di mostrare verso costoro una più umana comprensione. I sinodi siano celebrati uno prima della Quaresima perché, superato ogni dissenso, possa esser offerto a Dio un dono purissimo; l’altro in autunno.

VI. Della precedenza di alcune sedi, dell’impossibilità di essere ordinato vescovo senza il consenso del metropolita.

In Egitto, nella Libia e nella Pentapoli siano mantenute le antiche consuetudini per cui il vescovo di Alessandria abbia autorità su tutte queste province; anche al vescovo di Roma infatti è riconosciuta una simile autorità. Ugualmente ad Antiochia e nelle altre province siano conservati alle chiese gli antichi privilegi. Inoltre sia chiaro che, se qualcuno è fatto vescovo senza il consenso del metropolita, questo grande sinodo stabilisce che costui non debba esser vescovo. Qualora poi due o tre, per questioni loro personali, dissentano dal voto ben meditato e conforme alle norme ecclesiastiche degli altri, prevalga l’opinione della maggioranza.

VII. Del vescovo di Gerusalemme.

Poiché è invalsa la consuetudine e l’antica tradizione che il vescovo di Gerusalemme riceva particolare onore, abbia quanto questo onore comporta, salva sempre la dignità propria della metropoli.

VIII. Dei cosiddetti càtari.

Quanto a quelli che si definiscono càtari, cioè puri, qualora si accostino alla chiesa cattolica e apostolica, questo santo e grande concilio stabilisce che, ricevuta l’imposizione delle mani, rimangano senz’altro nel clero. E’ necessario però, prima di ogni altra cosa, che essi dichiarino apertamente, per iscritto, di accettare e seguire gli insegnamenti della chiesa cattolica, che cioè essi comunicheranno con chi si è sposato per la seconda volta e con chi è venuto meno durante la persecuzione, per i quali sono stabiliti il tempo e le circostanze della penitenza, così da seguire in ogni cosa le decisioni della chiesa cattolica e apostolica. Quando, sia nei villaggi che nelle città, non si trovino che ecclesiastici di questo gruppo essi rimangano nello stesso stato. Se però qualcuno di essi si avvicina alla chiesa cattolica dove già vi è un vescovo o un presbitero, è chiaro che il vescovo della chiesa avrà dignità di vescovo e colui che presso i càtari è chiamato vescovo, avrà dignità di presbitero, a meno che piaccia al vescovo che quegli possa dividere con lui la stessa dignità. Se poi questa soluzione non fosse per lui soddisfacente, gli procurerà un posto o di corepiscopo o di presbitero, perché appaia che egli fa parte veramente del clero e che non vi sono due vescovi nella stessa città.

IX. Di quelli che senza il debito esame sono Promossi al sacerdozio.

Se alcuni sono stati promossi presbiteri senza il debito esame, o, se esaminati, hanno confessato dei falli, ma, contro le disposizioni dei canoni, hanno ricevuto l’imposizione delle mani, la legge ecclesiastica non li riconosce; la chiesa cattolica infatti vuole uomini irreprensibili.

X. Di coloro che hanno rinnegato la propria fede durante la Persecuzione e poi sono stati ammessi fra il clero.

Se alcuni di quelli che hanno rinnegato la fede cristiana sono stati eletti sacerdoti o per ignoranza o per simulazione di quelli che li hanno scelti, questo non porta pregiudizio alla disciplina ecclesiastica: una volta scoperti, infatti, costoro saranno deposti.

XI. Di quelli che hanno rinnegato la Propria fede e sono finiti tra i laici.

Quanto a quelli che, senza necessità, senza confisca dei beni, senza pericolo o qualche cosa di simile – ciò che avvenne sotto la tirannide di Licinio – hanno tradito la loro fede, questo santo sinodo dispone che, per quanto essi siano indegni di qualsiasi benevolenza, si usi tuttavia comprensione per essi. Quelli dunque tra i fedeli che fanno davvero penitenza, trascorrano tre anni tra gli audientes, sei anni tra i substrati (2), e per due anni preghino col popolo salvo che all’offertorio.

XII. Di coloro che, dopo aver lasciato il mondo, vi sono poi ritornati.

Quelli che chiamati dalla grazia, dopo un primo entusiasmo hanno deposto il cingolo militare, ma poi sono tornati, come i cani, sui loro passi (3), al punto da versare denaro e da ricercare con benefici la vita militare, facciano penitenza per dieci anni, dopo aver passato tre anni fra gli audientes (4). Ma, per questi penitenti, bisognerà guardare la loro volontà ed il modo di far penitenza. Quelli, infatti, che col timore, con le lacrime, con la pazienza, con le buone opere dimostrano con i fatti, e non simulano la loro conversione, costoro, compiuto il tempo prescritto da passare fra gli audientes (5), potranno essere ammessi ragionevolmente a partecipare alle preghiere; dopo ciò, il vescovo potrà prendere nei loro riguardi qualche decisione anche più mite. Ma quelli che si comportano con indifferenza, e credono che per la loro espiazione sia sufficiente questa penitenza, devono senz’altro scontare tutto il tempo stabilito.

XIII. Di quelli che in punto di morte chiedono la comunione.

Con quelli che sono in, fin di vita, si osservi ancora l’antica norma per cui in caso di morte nessuno sia privato dell’ultimo, indispensabile viatico. Se poi avvenisse che quegli che era stato dichiarato disperato, ed era,stato ammesso alla comunione e fatto partecipe dell’offerta, guarisca, sia ammesso tra coloro che partecipano alla sola preghiera (fino a che sia trascorso il tempo stabilito da questo grande concilio ecumenico). In genere, poi, il vescovo, dopo inchiesta, ammetterà chiunque si trovi in punto di morte e chieda di partecipare all’eucarestia.

XIV. Dei catecumeni lapsi.

Questo santo e grande concilio stabilisce che i catecumeni lapsi per tre anni siano ammessi solo tra gli audientes (6), e che dopo questo tempo possano prender parte alla preghiera, con gli altri catecumeni.

XV. Del clero che si sposta di città in città.

Per i molti tumulti ed agitazioni che avvengono, è sembrato bene che sia assolutamente stroncata la consuetudine, che in qualche parte ha preso piede, contro le norme ecclesiastiche, in modo che né vescovi né preti, né diaconi si trasferiscano da una città all’altra. Che se qualcuno, dopo questa disposizione del santo e grande concilio, facesse qualche cosa di simile, e seguisse l’antico costume, questo suo trasferimento sarà senz’altro considerato nullo, ed egli dovrà ritornare alla chiesa per cui fu eletto vescovo, o presbitero, o diacono

XVI. Di coloro che non dimorano nelle chiese nelle quali furono eletti.

Quanti temerariamente, senza santo timore di Dio, né alcun rispetto per i sacri canoni si allontanano dalla propria chiesa, siano essi sacerdoti o diaconi, o in qualsiasi modo ecclesiastici, non devono in nessun modo essere accolti in un’altra chiesa; bisogna, invece, metterli nell’assoluta necessità di far ritorno alla propria comunità, altrimenti siano esclusi dalla comunione. Che se poi uno tentasse di usar violenza ad alcun dipendente da un altro vescovo e di consacrarlo nella sua chiesa contro la volontà del vescovo, da cui si è allontanato, tale ordinazione sia considerata nulla.

XVII. Dei chierici che esercitano l’usura.

Poiché molti che sono soggetti ad una regola religiosa, trascinati da avarizia e da volgare desiderio di guadagno, e dimenticata la divina Scrittura, che dice: Non ha dato il suo denaro ad interesse (7), prestando, esigono un interesse, il santo e grande sinodo ha creduto giusto che se qualcuno, dopo la presente disposizione prenderà usura, o farà questo mestiere d’usuraio in qualsiasi altra maniera, o esigerà una volta e mezza tanto:, o si darà, in breve, a qualche altro guadagno scandaloso, sarà radiato dal clero e considerato estraneo alla regola.

XVIII. Che i diaconi non debbano dare l’eucarestia ai presbiteri; e che non devono prender posto avanti a questi.

Questo grande e santo concilio è venuto a conoscenza che in alcuni luoghi e città i diaconi danno la comunione ai presbiteri: cosa che né i sacri canoni, né la consuetudine permettono: che, cioè, quelli che non hanno il potere di consacrare diano il corpo di Cristo a coloro che possono offrirlo. Esso è venuto a conoscenza anche di questo: che alcuni diaconi ricevono l’eucarestia perfino prima dei vescovi. Tutto ciò sia tolto di mezzo, e i diaconi rimangano nei propri limiti, considerando che essi sono ministri dei vescovi ed inferiori ai presbiteri. Ricevano, quindi, come esige l’ordine, l’eucarestia, dopo i sacerdoti, e per mano del vescovo o del sacerdote. Non è neppure lecito ai diaconi sedere in mezzo ai presbiteri; ciò è, infatti, sia contro i sacri canoni, sia contro l’ordine. Se poi qualcuno non intende obbedire, neppure dopo queste prescrizioni, sia sospeso dal diaconato.

XIX. Di quelli che dall’errore di Paolo di Samosata si avvicinano alla chiesa cattolica e delle diaconesse.

Quanto ai seguaci di Paolo, che intendono passare alla chiesa cattolica, bisogna osservare l’antica prescrizione che essi siano senz’altro ribattezzati. Se qualcuno di essi, in passato, aveva appartenuto al clero, purché, del tutto irreprensibile, una volta ribattezzato potrà essere ordinato dal vescovo della chiesa cattolica. Ma se l’esame dovesse far concludere che si tratta di inetti, è bene deporli. Questo modo d’agire sarà usato anche con le diaconesse e, in genere, con quanti appartengono al clero. Quanto alle diaconesse in particolare, ricordiamo, che esse, non avendo ricevuto alcuna imposizione delle mani, devono essere computate senz’altro fra le persone laiche.

XX. Che non si debba, nei giorni di domenica e di Pentecoste, pregare in ginocchio.

Poiché vi sono alcuni che di domenica e nei giorni della Pentecoste si inginocchiano, per una completa uniformità è sembrato bene a questo santo sinodo che le preghiere a Dio si facciano in piedi.

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Note

(1) I Tm 3, 6-7
(2) Audientes e substrati indicano gli appartamenti a due fasi dei catecumenato, che dovevano essere adempiute da chi, convertito al cristianesimo, aspirava al battesimo
(3) Cfr. Pr 26, 11. 
(4) V. nota 2.
(5) V. nota 2.
(6) V. nota 2.
(7) Sal 14, 5




TRACCE BIZANTINE: Madonna del Pilerio, Cosenza

tratto da un articolo di Riccardo Brunetti

II titolo ed il culto alla Madonna del Pilerio si fanno risalire comunemente all’anno 1576. Si può invece ritenere, almeno quanto al titolo, che siano di data molto più remota, se si considera che il Dipinto su tavola è un originale del XII secolo. Da documenti storici (l) risulta intanto che, tra il 1575-1576, un’orribile pestilenza infieriva per le molte regioni d’Italia, tra cui la Calabria e che la stessa Cosenza, non risparmiata dall’immane calamità, dovette lamentare moltissime vittime!

I Cosentini, minacciati da un tale flagello, cui non era possibile porre rimedio con risorse umane, fiduciosi, fecero ricorso a Dio ed ai Santi protettori, implorando misericordia. Ora avvenne che un giorno mentre un pio devoto, pregava con particolare fervore, dinnanzi ad un’antica Icone della Madonna (2), vide apparire all’improvviso sulla guancia sinistra della sacra Immagine una macchia simile a bubbone di peste. Immediatamente corse trepidante ad avvertire il Vicario generale dell’Archidiocesi  in quel periodo teneva le veci dell’Arcivescovo Andrea Matteo Acquaviva, che si trova da qualche tempo e che, colpito anch’egli dall’inesorabile morbo, lo stesso anno vi moriva  e veniva sepolto in S. Giovanni in Laterano, nel  sepolcro preparatogli dal nipote Card. Giulio Acquaviva (3). Il Vicario, seguito da Clero e numeroso popolo, accorse per verificare lo straordinario prodigio . Osservato il segno miracoloso si ebbe certo che con esso la Vergine Ss.  aveva voluto dimostrare di prendere quasi su di sé il flagello della peste, per liberarne i suoi figli e devoti, «alla stessa guisa, annota il Botta, del Redentore divino, che assunse sé per la sua passione e morte tutti i peccati  degli uomini». Cosi confermarono infatti gli eventi che seguirono. Da quel momento il contagio cominciò a regredire, poi man mano cessò del tutto. Gli stessi ammalati e quelli appena affetti dal ferale morbo sollecitamente e felicemente guarirono. Questo prodigio strepitoso(4) spinse il Popolo a dare fin d’allora alla Vergine della Cattedrale di Cosenza il titolo di Protettrice della Città (5).  La notizia non tardò a divulgarsi per i dintorni. Dai Casali circostanti, dalle campagne e dai paesi vicini fu un ininterrotto e crescente accorrere di pellegrini, i quali venivano per vedere il prodigioso Dipinto e per invocare la Madonna di Cosenza. Tali pellegrinaggi continuarono nel tempo e  gradatamente crebbero di numero e d’intensità tanto che, nel 1603, dopo più di cinque lustri dall’evento miracoloso, l’Arcivescovo mons. Giovanni Battista Costanzo (1591-1617), per meglio favorire l’afflusso dei pellegrini, fece rimuovere il sacro Dipinto dal sito dove trovavasi per farlo collocare, dapprima su di un pilastro del Duomo, indi sull’altare maggiore ed infine, quattro anni dopo, nel 1607, nella Cappella “de’ li Pilieri”, dove era stata disposta la costruzione di un altare, come è documentato da un atto del notaro Giacomo Mangerio del 20 giugno1602 (6). Agevolmente da ciò può dedursi che il titolo “Pilerio” è certo anteriore all’avvenimento del 1603,  la  collocazione cioè del  Quadro sul pilastro del Duomo. Quindi il titolo “Pilerio” non sarebbe derivato dal gesto dell’appoggiarlo sul pilastro o colonna del Duomo.

A tal punto, è opportuno far rilevare, gli storici, i quali si sono occupati della vicenda, si siano, ovviamente, limitati a riferire soltanto i fatti e le circostanze concomitanti e susseguenti il prodigioso evento del 1576 e null’altro. Difatti nessuno di essi, sembra, abbia fatto riferimento alcuno all’origine, valore artistico e vetustà del Dipinto e del Titolo; cose queste peraltro rimaste inspiegabilmente nell’ombra e nel silenzio secolare, fin quasi ai nostri giorni. Devesi alla fervida inventiva e genialità  pastorale dell’illustre e dinamico Presule Enea Selis (1971-1979) l’iniziativa, certamente provvidenziale, di far curare dalla Soprintendenza ai Beni Ambientali, Architettonici, Artistici e Storici della Calabria, il restauro dell’Icona bizantina della Madonna del Pilerio, ritenuta comunemente «un dipinto su tavola e copia, per giunta rimaneggiata, di un’immagine della Madonna, di non rilevante valore artistico». Il restauro era stato richiesto in vista ed in ordine alla ricorrenza del IV Centenario del miracolo (1576-1976), che il Presule mons. Selis intendeva commemorare con particolari festeggiamenti, secondo un suo geniale stile, così come aveva già fatto nella ricorrenza del 750° anniversario della Consacrazione del Duomo (1222-1972), all’inizio del suo governo episcopale. Tutti quelli, che ebbero la ventura di presenziarli, ricorderanno certo come, per l’intervento della Radiotelevisione, ne fu ripresa e diffusa in diretta sulla rete nazionale in tutta Italia la solenne cerimonia e la visione delle strutture interne del nostro Duomo. Per quanto poi si riferisce al restauro del dipinto fu la felice occasione della sorprendente scoperta e ricognizione. La sacra Icona risultata essere «un dipinto originale di pregevole artistica fattura del secolo magistralmente riportato al suo primitivo splendore bizantino» (7). Di ciò evidentemente con il trascorrere degli anni e per averla del tutto alterata, per il vezzo o mania, talora ricorrente, di abbellire opere d’arte, se n’era perduta la memoria. A tal punto riesce più agevole risalire all’origine del sacro dipìnto e del titolo, rimando indietro nel tempo e nel contesto storico onde poterne determinare l’epoca e la primitiva collocazione. Alcuni studiosi oggi sostengono con argomentazioni valide che si tratta di “antica icona bizantina su legno” posta al di fuori del nostro Duomo, probabilmente presso una delle porte della città, a custodia e difesa di essa. Citiamo perciò uno scritto di Elio Vivacqua (8), il quale fa anche riferimento ad un altro sullo stesso argomento del compianto prof. Serravalle: — «Che l’Immagine della Madonna del Pilerio, venerata nella Cattedrale di Cosenza, sia di molto anteriore alla dominazione spagnola tra noi, con la pace di Cateau Cambrèsis, è un fatto ammesso da tutti».

Dunque Madonna del Pilerio, che si vorrebbe far derivare da “Pilar” = pilastro o colonna, non sembra verosimile. Insieme al Serravalle, scrive testualmente il Vivacqua “noi crediamo invece che il titolo e la devozione alla Madonna del Pilerio siano molto più antichi e quindi preesistenti alla peste del 1576”.

Ecco da che cosa lo si deduce:

  1. Dobbiamo ricordare che Cosenza, fin dal sec. IV, faceva parte dell’Eparchia greca della Calabria, quale suffraganea di Reggio. Inoltre è impossibile che essa non abbia  sentito l’influsso della vicina Rossano, capitale bizantina nei sec. X e XI.
  2. Nella liturgia bizantina la devozione alla Madonna ha un ruolo preponderante, ecco perché in quel periodo si solevano porre immagini della Vergine nei punti strategici, come a difesa del ponte  levatoio oppure alle porte della città.
  3. Nel contesto della religiosità greca o bizantina il titolo “Pilerio” non può dunque avere che una etimologia greca. E’infatti in greco “pule” significa porta e “puleròs” guardiano, custode della porta. Porre la Madonna a custodia della porta voleva dire riporre in Lei la fiducia di essere scampati da qualsiasi pericolo e quindi mettere la città sotto la sua materna protezione.

A riprova c’è un esempio illuminante a Rossano, dove una vetusta chiesina, che trovasi davanti ad una delle antiche porte della città, è dedicata alla Madonna del Pilerio».

 Note

(1) Andreotti D., Storia  dei  Cosentini, vol.   Il,  cap.10 & 3. • Botta C., Storia d’Italia, anno 1763, Pagnoni, Milano.

(2) N. B. È un dipinto su tavola, originale del secolo XII-XIII, esposto in un sito remoto del nostro Duomo o piuttosto all’esterno di esso o addirittura in una nicchia, presso una delle porte della città.                  

(3)Andreotti D., op.cit., Vol. Il p.329. Litta, Famiglie celebri d’Italia, Milano,1819-1880.
P. Russo F, Storia dell’archidiocesi di Cosenza, Rinascita Artistica Editrice, Napoli,1958.

(4)Botta C., op.cit

(5) Andreotti D., op. cit.    

(6) Archivio Notarile Statale, Cosenza, – Atti Notaro G. Mangerio, 1602.

(7) Relazione sul restauro del Quadro a cura della Sovrintendenza ai Beni culturali della Calabria. 1976.

(8) Vivacqua E., Le origini del culto della Madonna del Pilerio, Periodico “L’Unione” 31-3-1981, Cosenza.


LETTURA DELL’ICONA

Tratto da un articolo di Antonio Marchianò

Messaggio dell'Arcivescovo per la Festa della Madonna del Pilerio –  Arcidiocesi di Cosenza-Bisignano

L’icona misura 95 x 65 cm ed è stata eseguita in ambito mediterraneo occidentale; grazie alle sue caratteristiche iconografiche è definita “bizantina”. La tavola su cui è rappresentata la Vergine che allatta il Bambino ha subito nel tempo vari rimaneggiamenti, ma anche danneggiamenti, fino ad essere stata completamente ridipinta. Solo con i restauri voluti dall’arcivescovo Mons. Enea Selis nel 1976-77 ed eseguiti presso la Sovrintendenza per i Beni culturali è stata ripristinata la bellezza originale, che ha permesso una lettura approfondita della immagine dipinta sul legno. L’icona infatti fino ad allora era considerata di scarso valore artistico, e solo una mera riproduzione di una più antica icona medievale. Secondo la Di Dario Guida, l’icona sembra essere stata eseguita durante l’ultimo scorcio della dominazione Sveva. Risulta come uno dei prodotti artistici più rilevanti di un vasto movimento artistico e culturale che subì sia gli influssi del “bizantinismo aulico delle opere messinesi del XIII secolo, sia le affinità delle ricerche plastiche perseguite dai maestri toscani pre-cimabueschi ”L’icona si inserisce, inoltre, in una linea che unisce, dal punto di vista artistico, Monreale, Messina e la Campania.

Partendo dalla figura della Vergine rappresentata possiamo affermare, confortati da autorevoli studi, che l’immagine è la sintesi tra una Galaktotrophousa (Colei che dona il latte) e la Kikkotissa (Vergine dal rosso manto). I due particolari pittorici relativi all’allattamento del Divin Bambino e del Maforiuòn (manto rosso) emergono nella loro immediatezza appena ci si accosta all’icona.

L’icona è avvolta da una luce tutta particolare che emerge dallo sfondo oro che simboleggia la gloria di Dio che tutto abbraccia. La grazia trasfigura la creatura nella quale “abita l’Altissimo”. Tutte le icone, ma particolarmente quelle della Madre di Dio, sono accompagnate dall’oro che indica il progetto e l’iniziativa di Dio, la gloria scende e prende possesso della tenda. Anche il rosso del velo che scende dal capo e il porpora dell’abito di cui Maria è rivestita sono simboli della divinità che “avvolge” la giovane di Nazareth e ne coinvolge mente e cuore. Il colore porpora dell’abito richiama anche la dimensione sacerdotale e regale ma soprattutto la “potenza dell’Altissimo” di cui l’Angelo annunziante le parla quando le propone il grande progetto della salvezza e della maternità. Il velo rosso che scende sulla spalla vuole significare che la Vergine Maria è stata “avvolta” dall’alto e ricoperta dalla grazia. Il marrone della veste della Vergine è richiamo della sua umanità, mentre l’altra parte di manto di colore blu che avvolge la donna, ed avvolge anche gli abiti, indica il privilegiato rapporto con Dio di questa creatura. Base di ogni colore è il bianco che in tutta la tavola esprime la purezza, l’immacolato concepimento della Vergine. Esso si intravede sulla fronte, nella manica del braccio sinistro ed è l’abito che ella indossa sotto tutti gli altri. Le tre stelle, secondo l’iconografia classica bizantina, sono collocate una sulla fronte e due ai lati sulle spalle. Esse indicano che Maria è inabitata dalla Trinità ma anche la sua Verginità prima, durante e dopo il parto. I medaglioni dorati intorno al capo della Vergine sono undici. Rappresentano la Chiesa Apostolica senza l’apostolo Giuda che aveva tradito il Signore. Questo particolare stellario indica Maria presente nel Cenacolo di Gerusalemme, accanto agli Apostoli, proprio nei giorni e nelle ore della Pasqua fino alla Pentecoste. Le scritte in latino (MR e DOMINI) collocate rispettivamente a sinistra e a destra dell’immagine come prescritto dal Concilio di Nicea (787d.C) indicano la maternità divina di Maria. L’aureola sul capo del Divino Bambino contrassegnato dalla croce è un chiaro richiamo alla Passione di Cristo e al suo regnare glorioso. Il mistero dell’Incarnazione infatti è strettamente collegato con quello della Redenzione. Un ultimo segno che appare sulla tavola è la macchia scura sul volto della Vergine. È il segno della peste di cui Maria si è caricata per liberare miracolosamente la città di Cosenza afflitta dal terribile morbo e di cui storia e devozione popolare sono ancora testimoni. La Vergine Maria regge il Bambino tra le braccia e Gesù è seduto delicatamente sulla mano destra; essa diventa per lui quasi un trono da cui regna. Un drappo rosso posto tra le mani della Madonna richiama la sua signoria, la sua potestà regale e sacerdotale, la sua divinità. Non è escluso anche il richiamo alla Passione. Gesù che prende il latte dalla mammella diventa un particolare iconografico molto evidente: c’è una stretta tensione tra Cristo che è capo della Chiesa e il suo corpo mistico, di cui Maria ne è icona perfetta. Alcuni studiosi vedono proprio nella posizione del collo piegata verso il Bambino questa strettissima dipendenza e questo stretto rapporto tra Gesù e Maria, tra Cristo e la Chiesa. L’iconografia del seno si chiarisce ancora di più se la Vergine è colta nella dimensione di nutrice dei figli (Colei che nutre, imbandisce il banchetto, la mensa) fino a diventare, come la invoca la Chiesa ortodossa,
Trapeza, evidente richiamo alla mensa eucaristica. Il Bambino è rappresentato con due addomi, strettamente legati da una fascia rossa intrecciata, ad indicare che le due nature umana e divina che sono unite in Cristo. Nella piccola fascia rossa intrecciata alcuni hanno intravisto anche un prolungamento del cordone ombelicale che unisce il figlio (divino) alla Vergine (madre) per esprimere visivamente il titolo di Madre di Dio (Theotòkos) inciso sulla tavola. Copre il Bambino un trasparente velo bianco che ricorda la divina purezza di Cristo agnello senza macchia che toglie i peccati del mondo e riscatta con l’effusione del suo sangue l’intera umanità dalla schiavitù, dai peccati e dalla morte. La Vergine come in ogni antica icona indica con la mano sinistra il figlio, si fa Odigitria (indica la Via) per tutti coloro che guardano la sua immagine e che potrebbero cadere nella tentazione di fermare lo sguardo su di lei. Le dita delle mani indicano anche alcune verità di fede: le tre dita della mano destra richiamano il mistero trinitario e ancora il parto verginale di Maria toccata dal mistero dell’Incarnazione; le due dita della mano sinistra invece indicano la doppia natura umana e divina di Cristo.

Bibliografia
Di Dario Guida M. Pia, Itinerario dell’arte dai Bizantini agli Svevi,
in “Itinerari per la Calabria”, ed. l’Espresso, Roma, 1983, p.157.
Di Dario Guida M. P., Cultura artistica della Calabria medievale, di Mauro Edizioni, 1978.
Frangipane A., Inventario degli oggetti d’arte d’Italia, II – Calabria, Roma 1933, p. 121.
Leone G., Icone della “Theotokos” in Calabria, Ed. Vivarium 1990
Leone G., Icone della “Teotokos” in Calabria, in “Concilio Niceno II e l’iconografia mariana in Calabria”, atti del convegno, Cz, 1987, a cura di Squillace M., Edizioni Vivarium,Catanzaro, 1990, pp.119 e ss.
Napolillo V., Storia e fede a Cosenza, la Madonna del Pilerio, Edizioni Santelli, Cosenza, 2002, p.13.
Tuoto G., La Madonna del Pilerio, Leggenda, Cosenza 2001, p. 32.
Vitari S., Il Duomo di Cosenza, in Bilotto L., Il Duomo di Cosenza, Effesette, Cosenza, 1989, p.101.




ORIGENE: La pietra della Chiesa

ORIGENE, Commento al Vangelo di Matteo

LA RIVELAZIONE A PIETRO-CHIESA.

Ma forse potremmo anche noi dire la stessa cosa che Simon Pietro affermò in risposta: Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio vivo, se come Pietro lo diciamo non per avercelo rivelato la carne e il sangue, ma per essere brillata nel nostro cuore una luce dal Padre che è nei cieli; a questo punto diventiamo anche noi ciò che era Pietro, e saremo dichiarati beati come lui, perché anche per noi si è realizzato quello che era motivo di beatitudine per lui: non la carne e il sangue ci hanno rivelato che Gesù Cristo è il Figlio del Dio vivente, bensì il Padre che è negli stessi cieli, in cui siamo noi, perché è lì che abbiamo la nostra patria, ci ha fatto una rivelazione, che innalza ai cieli coloro che hanno tolto dal cuore ogni velo, e hanno ricevuto lo spirito della sapienza di Dio e della sua rivelazione 9. Ora se avremo detto anche noi come Pietro: Tu sei il Cristo, Figlio di Dio vivo (non perché ce lo abbia rivelato la carne e il sangue, ma perché è brillata nel nostro cuore una luce dal Padre che è nei cieli) diventeremo Pietro, e il Logos potrebbe dire anche a noi: Tu sei Pietro, ecc. Pietra, infatti, è ogni imitatore di Cristo. Da Cristo attingevano coloro che si dissetavano a una pietra spirituale che li accompagnava. E su ogni pietra di tal genere viene edificato tutto l’insegnamento della Chiesa e il modo di vivere conforme ad esso. Infatti in ognuno dei perfetti che hanno l’insieme degli insegnamenti, delle opere e dei pensieri che compiutamente realizzano la beatitudine, è la Chiesa edificata da Dio.

Ma se ritieni che solamente su quel Pietro Dio edifichi tutta quanta la Chiesa, cosa dirai allora di Giovanni, il figlio del tuono o di ciascuno degli apostoli? Ma veramente oseremo asserire che le porte degli inferi non prevarranno su quel Pietro in particolare, mentre prevarranno sugli altri apostoli e sui perfetti? Non è che la suddetta promessa: le porte degli inferi non prevarranno su di essa e su questa pietra edificherò la mia Chiesa, viene fatta in rapporto atutti e ad ognuno di loro? Dunque le chiavi del regno dei cieli sono consegnate da Cristo al solo Pietro, e nessun altro dei beati le riceverà? Ma se la promessa: a te darò le chiavi del regno dei cieli è comune ad altri, come non lo saranno tutte le parole precedenti e conseguenti rivolte a Pietro…? In realtà, qui sembrano rivolte a Pietro le parole: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato anche nei cieli, ecc.; ma nel Vangelo di Giovanni, il Salvatore è ai discepoli che dà lo Spirito Santo, col suo alitare, e dice: Ricevete lo Spirito Santo, ecc. Orbene, molti diranno al Salvatore: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente, ma non tutti quelli che lo asseriscono glielo diranno per averlo appreso da una rivelazione della carne e del sangue, ma per averlo stesso Padre che è nei cieli rimosso il velo posto sopra il loro cuore, affinché dopo ciò, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, parlino nello Spirito di Dio, dicendo di lui: Gesù è il Signore e dicendo a lui: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente. E se uno dice a lui questo, non perché glielo abbiano rivelato la carne e il sangue, ma il Padre che è nei cieli, riceverà dette promesse, come dice certo la lettera del Vangelo a quel Pietro, ma come insegna anche lo spirito del Vangelo a chiunque sia divenuto come quel Pietro. Infatti, lo stesso nome di «pietra» hanno tutti gli imitatori di Cristo, pietra spirituale che seguiva coloro che erano salvati, affinché ne attingessero la bevanda spirituale. Costoro dunque, come il Cristo, prendono lo stesso nome dalla pietra, ma essendo anche membra di Cristo si chiamarono «Cristi» derivando da lui questo nome, e si chiamarono «Pietri» dalla pietra. Prendendo spunto da ciò, dirai che i giusti hanno questo nome da Cristo-Giustizia, e i sapienti da Cristo-Sapienza. E così, per tutti gli altri suoi titoli assegnerai rispettivi nomi ai santi: a tutti loro potrebbero essere rivolte le parole dette dal Salvatore: Tu sei Pietro, e così via fino a: non prevarranno contro di essa.Contro di essa: contro chi? Contro la pietra sulla quale il Cristo edifica la sua Chiesa, contro la Chiesa (l’espressione è ambivalente), oppure contro la pietra e la Chiesa insieme?

Questo, a mio parere, è il senso vero: le porte degli inferi non prevarranno né sulla pietra sulla quale Cristo edifica la sua Chiesa, né sulla Chiesa, sì che non si potrà mai trovare il cammino del serpente nella pietra (come sta scritto nei Proverbi). Ora se le porte degli inferi prevarranno su qualcuno, un tale uomo non potrà essere né la pietra sulla quale Cristo edifica la sua Chiesa, né la Chiesa edificata da Cristo sulla pietra. Infatti la pietra è inaccessibile al serpente, ed è più forte delle porte degli inferi che le sono avverse, per cui queste non prevarranno su di essa, a motivo della forza che ha. E la Chiesa, come costruzione di Cristo, che ha saggiamente costruito la sua casa sulla pietra, è inespugnabile dalle porte degli inferi, che se pure prevalgono su ogni uomo che si trova fuori della pietra e della Chiesa, nulla possono contro di questa.