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Settimo Concilio Ecumenico: Nicea II 786 d.C.

DEFINIZIONE

Il santo, grande e universale concilio, per grazia di Dio e per decreto dei pii e cristiani nostri imperatori Costantino ed Irene, sua madre, riunito per la seconda volta nella illustre metropoli di residenza imperiale, nel tempio della santa e inviolata Theotokos e sempre vergine Maria, seguendo la tradizione della chiesa cattolica, definisce quanto segue.

Satana ha fuorviato gli uomini, in modo che venerassero la creatura invece del Creatore. La Legge Mosaica e i Profeti hanno cooperato per annullare questa rovina; ma per salvare l’umanità, Dio ha mandato il suo Figlio, che ci ha allontanato dall’errore e dall’adorazione degli idoli, e ci ha insegnato l’adorazione di Dio in spirito e in verità. Come messaggeri della sua dottrina di salvezza ci ha lasciato i suoi Apostoli e discepoli, e questi hanno adornato la Chiesa, la sua Sposa, con le sue gloriose dottrine. Questo ornamento della Chiesa i santi Padri e i sei Concili Ecumenici hanno conservato inviolato.

Cristo, nostro Dio, ci fece dono della sua conoscenza e ci liberò dalle tenebre e dal furore degli idoli. E dopo aver fatta sua sposa la sua Chiesa, senza macchia e senza ruga promise di conservarla e confermò questa promessa dicendo ai suoi discepoli Io sono con voi ogni giorno, fino alla fine dei secoli. Ma questa promessa egli non la fece solo a loro ma anche a noi, che attraverso loro abbiamo creduto nel suo nome.

Alcuni, dunque, incuranti di questo dono, come se avessero ricevuto le ali dal nemico ingannatore, hanno deviato dalla retta ragione opponendosi alla Tradizione della Chiesa Cattolica, hanno riportato l’idolatria sotto l’apparenza del cristianesimo e non hanno più raggiunto la conoscenza della verità. E, come dice il proverbio, sono andati errando per i viottoli, del proprio campo e hanno riempito le loro mani di sterilità; hanno tentato, infatti, di screditare le immagini dei sacri monumenti dedicati a Dio; sacerdoti, certo, di nome, ma non nell’essenza. Di questi il Signore dice cosi nella profezia: Molti Pastori hanno devastato la mia vigna; hanno contaminato la mia parte, seguendo, infatti, uomini scellerati, e trascinati dalle loro passioni, hanno accusato la santa Chiesa, sposata a Cristo Dio, e non distinguendo il sacro dal profano, hanno messo sullo stesso piano le immagini di Dio e dei suoi santi e le statue degli idoli diabolici.

Come allora Cristo armò i suoi Apostoli contro l’antica idolatria con la potenza dello Spirito Santo, e li mandò in tutto il mondo, così egli ha risvegliato contro la nuova idolatria i suoi servi, i nostri fedeli imperatori, e li ha dotati della sua stessa saggezza dello Spirito Santo. Spinti dallo Spirito Santo, essi non potevano più essere testimoni della distruzione della Chiesa a causa dell’inganno dei demoni, e convocarono l’assemblea santificata dei Vescovi amati da Dio, per istituire in un Concilio un esame scritturale sulla teologia ingannevole delle immagini, che trascina lo spirito dell’uomo dall’adorazione alta di Dio all’adorazione bassa e materiale della creatura: tutto ciò perché la divina Tradizione della Chiesa Cattolica riuscisse rafforzata da un voto comune. Dopo indagini, quindi, e discussioni scrupolosissime, con l’unico scopo di seguire la verità, noi né togliamo né aggiungiamo cosa alcuna; vogliamo solo conservare intatto tutto ciò che è proprio della Chiesa Cattolica. Osservanti, perciò, dei santi sei Concili Ecumenici, e specialmente di quello che fu tenuto nella nobile e grande città dei Niceni; e di quello celebrato dopo di esso nella città imperiale, cara a Dio, che decretarono che:

Crediamo in un solo Dio, Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e di quelle invisibili: e in un solo Signore Gesù Cristo, Figlio unigenito di Dio, generato dal Padre prima di tutti i secoli, luce da luce, Dio vero da Dio vero; generato, non creato, consustanziale al Padre, per mezzo del quale sono state fatte tutte le cose. Per noi uomini e per la nostra salvezza egli discese dal cielo, e per opera del Santo Spirito si è incarnato nel seno della vergine Maria, e divenne uomo. Fu
crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, fu sepolto e risuscitò il terzo giorno secondo le Scritture, salì al cielo, sedette alla destra del Padre: verrà nuovamente nella gloria per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine. E nello Spirito, che è Santo, Signore, Vivifico [datore di vita], che procede dal Padre; che col Padre e col Figlio deve essere adorato e glorificato, ed ha parlato per mezzo dei Profeti. E alla Chiesa una, santa, cattolica e apostolica. Professo un solo battesimo per la remissione dei peccati e aspettiamo la resurrezione dei morti, e la vita del secolo futuro. Amin.

Detestiamo e anatematizziamo Ario ed i suoi seguaci, e quelli che hanno in comune con lui la sua insana dottrina; cosi pure Macedonio ed i suoi, ben a ragion chiamati “pneumatomachi”, cioè gente che combatte lo Spirito. Confessiamo anche la signora nostra, la santa Maria, come vera e propria madre di Dio: essa, infatti, ha partorito nella sua carne una persona della Trinità, Cristo, nostro Dio, come ha insegnato anche il primo concilio di Efeso, che scacciò dalla chiesa l’empio Nestorio, e quelli che ne seguono il pensiero, perché introducevano un dualismo di persone (in Cristo). Confessiamo inoltre anche le due nature di colui che si è incarnato per noi dall’intemerata Madre di Dio e sempre vergine Maria, riconoscendo in lui un perfetto Dio e un perfetto uomo, come ha proclamato anche il concilio di Calcedonia, scacciando dalla chiesa Eutiche e Dioscoro, blasfemi. Accomuniamo ad essi Severo, Pietro, e il grandemente blasfemo loro codazzo, intrecciati l’uno all’altro. Con essi anatematizziamo le favolose invenzioni di Origene, di Evagrio, e di Didimo, come fece anche il quinto concilio riunito a Costantinopoli. Predichiamo, inoltre, in Cristo due volontà e due operazioni, secondo la proprietà delle nature, come solennemente dichiarò il sesto sinodo di Costantinopoli, sconfessando Sergio, Onorio, Ciro, Pirro, Macario, negatori della pietà, e i loro accoliti. Noi intendiamo custodire gelosamente intatte tutte le tradizioni ecclesiastiche, sia scritte che orali. Una di queste, in accordo con la predicazione evangelica, è la pittura delle immagini, che giova senz’altro a confermare la vera – e non frutto di fantasia – incarnazione del Verbo di Dio, e ha una simile utilità per noi infatti, le cose, che hanno fra loro un rapporto di somiglianza, hanno anche senza dubbio un rapporto scambievole di significato.

In tal modo, procedendo sulla via regia, seguendo in tutto e per tutto l’ispirato insegnamento dei nostri santi padri e la tradizione della Chiesa Cattolica riconosciamo, infatti, che il santo Spirito abita in essa noi definiamo con ogni accuratezza e diligenza che, a somiglianza della preziosa e vivificante Croce, le venerande e sante immagini sia dipinte che in mosaico, di qualsiasi altra materia adatta, debbono essere esposte nelle sante Chiese di Dio, nelle sacre suppellettili e nelle vesti, sulle pareti e sulle tavole, nelle case e nelle vie; siano esse l’immagine del Signore e Dio e Salvatore nostro Gesù Cristo, o quella della intemerata Signora nostra, la santa Madre di Dio, degli angeli degni di onore, di tutti i santi e pii uomini. Infatti, quanto più continuamente essi vengono visti nelle immagini, tanto più quelli che le vedono sono portati al ricordo e al desiderio di quelli che esse rappresentano e a tributare ad essi rispetto e venerazione. Non si tratta, certo, secondo la nostra fede, di un vero culto di latria, che è riservato solo alla natura divina, ma di un culto simile a quello che si rende alla immagine della preziosa e vivificante croce, ai santi evangeli e agli altri oggetti sacri, onorandoli con l’offerta di incenso e di lumi, com’era uso presso gli antichi. L’onore reso all’immagine, infatti, passa a colui che essa rappresenta; e chi adora l’immagine, adora la sostanza di chi in essa è riprodotto.

In tal modo si rafforza l’insegnamento dei nostri santi Padri, ossia la tradizione della Chiesa Cattolica, che ha accolto il Vangelo da un confine all’altro della terra; in tal modo siamo seguaci di Paolo, del divino collegio Apostolico, e della santità dei Padri, tenendoci stretti alle tradizioni che abbiamo ricevuto; così possiamo cantare alla Chiesa gli inni trionfali dei profeti: rallegrati molto, figlia di Sion, esulta figlia di Gerusalemme; godi e gioisci, con tutto il cuore; il Signore ha tolto di mezzo a te le iniquità dei tuoi avversari, sei stata liberata dalle mani dei tuoi nemici. Dio, il tuo re, è in in mezzo a te; non sarai più oppressa dal male, e la pace porrà in te la sua dimora in eterno.

Dopo aver abrogato la definizione falsamente detta dello pseudo-concilio tenutosi durante il regno di Costantino il Copronimo a Blachernae, con i Diaconi Epifanio e Giovanni che la leggevano; e dopo aver proclamato San Germano, e Giovanni Damasceno, e Giorgio Cipriota Ortodossi e Santi, ha emesso una definizione formulata come segue:

«Definiamo la regola con tutta l’accuratezza e la diligenza, in modo non dissimile da quello che si addice alla forma della preziosa e vivificante Croce, che le venerabili e sante icone, dipinte o a mosaico, o fatte di qualsiasi altro materiale adeguato, siano collocate nelle sante chiese di Dio su vasi e paramenti sacri, muri e pannelli, case e strade, sia del nostro Signore e Dio e Salvatore Gesù Cristo, sia della nostra intemerata Signora la santa Theotokos e anche dei preziosi Angeli, e di tutti i Santi. Quanto più frequentemente e spesso vengono visti nella rappresentazione pittorica, tanto più coloro che li osservano vengono ricordati e portati a visualizzare di nuovo il ricordo degli originali che rappresentano e per i quali, inoltre, suscitano anche un desiderio nell’anima delle persone che osservano le icone. Di conseguenza, tali persone sono spinte non solo a baciarle e a render loro l’adorazione onoraria, ma soprattutto sono pervase dalla vera fede che si riflette nella nostra adorazione che è dovuta solo a Dio e che si addice solo alla natura divina (l’adorazione è definita da San Basilio il Grande come un culto intenso e continuativo, che non si discosta dall’oggetto adorato). Ma questo culto deve essere dato nel modo suggerito dalla forma della preziosa e vivificante Croce, e dai santi Vangeli, e dal resto delle sacre istituzioni, e l’offerta d’incenso, e di candele allo scopo di onorarli, proprio come era consuetudine fare tra gli antichi per manifestare la pietà. Poiché ogni onore reso all’icona (o all’immagine) si riversa sull’originale, e chi si inchina in adorazione davanti all’icona, si inchina allo stesso tempo in adorazione alla persona (o ypòstasi) di chi in essa è raffigurato. Perché così era la dottrina dei nostri Santi Padri e la Tradizione della Chiesa universale».

ANATEMI RIGUARDO ALLE SACRE IMMAGINI

Se qualcuno non ammette che Cristo, nostro Dio, possa esser limitato, secondo l’umanità, sia anatema.
Se qualcuno rifiuta che i racconti evangelici siano rappresentati con disegni, sia anatema.
Se qualcuno non venera queste [immagini], [fatte] nel nome del Signore e dei suoi Santi, sia anatema.
Se qualcuno rigetta ogni tradizione ecclesiastica, sia scritta che non scritta, sia anatema.

CANONI

I. Bisogna osservare in tutto i sacri canoni.

Quelli che hanno la dignità del sacerdozio, hanno il criterio costituito dalle testimonianze e dalle indicazioni delle prescrizioni canoniche. Noi le accettiamo con gioia, e cantiamo con Davide divinamente ispirato, dicendo a Dio: Mi sono dilettato dei tuoi comandamenti, come di ogni ricchezza. E hai emanato i tuoi comandamenti con giustizia in eterno; dammene l’intelligenza e vivrò. Se, dunque, la voce dei profeti ci comanda di osservare in eterno i comandamenti di Dio, e di vivere in essi, è chiaro che essi devono rimanere intatti e stabili. Anche Mosè, infatti, che vide Dio, dice cosi: In essi non vi è nulla da aggiungere e nulla da togliere (Dt 12,32). E il divino apostolo Pietro, gloriandosi in essi, grida: In essi gli angeli desiderano ardentemente di volgere lo sguardo (1 Pt 1,12); e Paolo: Ma anche se noi o un angelo dal cielo vi predicasse un vangelo diverso da quello che vi abbiamo annunziato, sia anatema (Gal 1,8).

Convinti di ciò ne facciamo professione e ce ne rallegriamo come i soldati rallegrano di abbondanti spoglie, gioiosamente accogliamo nel nostro cuore i divini canoni, e conserviamo integre e certe le loro prescrizioni, sia quelle emanate dai lodevolissimi Apostoli, trombe dello Spirito, che quelle dei sei Concili Ecumenici, dei Concili locali e quelli dei nostri santi Padri. Da tutti questi uomini, illuminati, infatti, da un solo e medesimo Spirito, sono state prescritte regole che sono per la nostra utilità. Sicché quelli che essi hanno anatematizzato lo sono anche per noi; quelli deposti lo sono anche per noi; quelli giudicati degni di scomunica, lo sono anche per noi; quelli sottoposti a pene, lo sono anche per noi allo stesso modo. Il vostro modo di vivere non sia amante del denaro, ma contentatevi di quanto avete (Eb 13,5): cosi esclama con chiara voce il divino Paolo, colui che sali al terzo cielo e ascoltò parole indicibili. (2 Cor 12,2-4)

II. Chi viene ordinato vescovo prometta di osservare i sacri canoni, altrimenti non deve essere ordinato.

Poiché cantando i salmi promettiamo a Dio: Mediterò i tuoi comandamenti; non dimenticherò le tue parole (Sal 118,16), è certamente doveroso che ogni cristiano osservi tutto ciò; ma in modo particolare coloro che hanno conseguito la dignità sacerdotale. Stabiliamo, perciò, che chiunque sia promosso all’episcopato, debba conoscere a memoria il Salterio, sicché possa ammonire tutto il clero, che da lui dipende, a istruirsi allo stesso modo. Il Metropolita indaghi diligentemente l’ordinando se egli legge volentieri, e non di corsa, ma con attenzione sia i sacri Canoni e il santo Vangelo, sia il libro del divino Apostolo, e tutta la sacra Scrittura; e se si comporta secondo i divini precetti, e istruisce cosi il suo popolo. Le parole divine, ossia la vera conoscenza delle sacre Scritture, sono l’essenza, infatti, del nostro sacerdozio, come afferma il grande Dionigi (DIONIGI AEROPAGITA, Hierarchia coelestis, 1, 4 [PG 3, 389]). Che se egli non fosse d’accordo, e non fosse disposto a comportarsi e ad insegnare cosi, non sia ordinato. Dice, infatti, Dio per mezzo dei profeti: Tu hai respinto la scienza, io respingerò te, perché tu non sia mio sacerdote (Os 4,6).

III. I principi non devono eleggere un vescovo

Ogni elezione di un Vescovo, di un Sacerdote, di un Diacono, fatta dai principi secolari è invalida, secondo il Canone: “Se un vescovo con l’appoggio dell’autorità secolare ha ottenuto una Chiesa sia deposto e siano scomunicati tutti quelli che comunicano con lui” (Canoni degli apostoli, 30). Bisogna, infatti, che chi dev’essere promosso all’episcopato, sia eletto da Vescovi, com’è stato stabilito dai santi Padri di Nicea, nel canone: “E’ sommamente conveniente che il Vescovo sia eletto da tutti i Vescovi della provincia; se ciò fosse difficile per una urgente necessità o per le distanze, almeno tre, raccoltisi nello stesso luogo, non senza che i Vescovi assenti abbiano dato il loro parere per iscritto, facciano l’ordinazione. La conferma di quanto è stato compiuto è riservata, in ciascuna provincia, al Metropolita” (Concilio di Nicea, 4).

IV. I vescovi si devono astenere da ogni baratto.

Il banditore della verità, il divino apostolo Paolo, stabilendo quasi una norma per i presbiteri di Efeso, o meglio, per tutto il clero, dice con estrema libertà: io non ho desiderato né l’argento, né l’oro, né la veste di nessuno. Vi ho mostrato in ogni maniera che cosi, lavorando, bisogna aiutare i deboli, stimando più felice il dare (21).

Anche noi, quindi, istruiti da lui, stabiliamo che in nessun modo per turpe lucro un vescovo adducendo scuse ai suoi peccati (22) possa chiedere oro, argento, o altra cosa, ai vescovi, ai chierici, o ai monaci che sono sotto di lui. Dice, infatti, l’apostolo: Gli ingiusti non avranno in sorte il regno di Dio (23) e: I figli non devono accumulare per i genitori, sono piuttosto questi che devono metter da parte per i figli (24).

Se, perciò, qualcuno, volendo denaro o qualsiasi altra cosa, o per innata passione allontanasse o escludesse qualcuno dei suoi chierici dal suo ministero, o chiudesse il tempio venerando, cosi che non potesse più tenersi in esso il divino servizio, spingendo la sua pazzia a cose insensate, poiché si mostra davvero insensato, sarà soggetto a pena analoga, che ricadrà sul sito stesso capo (25) poiché si rende trasgressore di un precetto di Dio e delle prescrizioni apostoliche. Comanda, infatti, anche Pietro, il principale tra gli apostoli: Pascete il gregge di Dio, che è in mezzo a voi, non forzatamente, ma volentieri, conforme alla volontà di Dio, non per volgare desiderio di guadagno, ma con zelo, non come chi vuole signoreggiare il clero, ma trasformandosi in modelli del gregge,e quando apparirà il Pastore dei pastori, riceverete la corona di gloria che non marcisce (26).

V.

Chi schernisce i chierici ordinati senza donativi sia punito.

Il peccato conduce alla morte (27) quando qualcuno, dopo aver peccato, non si corregge. Peggio ancora, se qualcuno si erge arrogantemente contro la pietà e la verità, amando mammona più dell’obbedienza a Dio, e non tenendo in nessun conto i suoi precetti canonici. In loro non abita il Signore Dio (28), a meno che, umiliati per il proprio errore, non si correggano: bisogna, infatti che essi si avvicinino maggiormente a Dio, e con cuore contrito gli chiedano la remissione di questo peccato e la sua indulgenza, piuttosto che vantarsi di donativi illeciti: poiché Dio è vicino a quelli che sono contriti di cuore (29).

Quelli dunque che si gloriano di essere stati ordinati per una chiesa per mezzo del denaro e pongono le loro speranze in questa loro prava consuetudine, che aliena da Dio e da ogni sacerdozio, e che, per di più, impudentemente e sfacciatamente hanno espressioni offensive contro chi per la propria vita virtuosa è stato scelto e costituito (nel sacerdozio) dallo Spirito santo senza denaro; quelli, dunque, che fanno ciò, prima siano posti all’ultimo gradino del loro ordine; se poi insistessero, siano assoggettati alle pene ecclesiastiche.

Se poi nell’ordinazione si venisse a sapere che qualcuno in passato avesse fatto ciò, si agisca secondo il canone apostolico, che dice: “Se un vescovo, un presbitero o un diacono, hanno ottenuto la loro dignità col denaro, siano deposti, loro e chi li ha ordinati, e siano in ogni modo privati della comunione, come Simon mago da me Pietro” (30). Ciò anche conformemente al secondo canone dei nostri santi padri di Calcedonia, che dice: “Se un vescovo facesse una sacra ordinazione per denaro, e riducesse ad una vendita quella grazia che per sua natura non si può vendere, e consacrasse per denaro un vescovo, un corepiscopo, un presbitero, un diacono, o un qualsiasi altro membro del clero; o, sempre per denaro, nominasse un amministratore, o un pubblico difensore, o una guardia, o, insomma, uno qualsiasi del clero, per vile guadagno; chi, dunque, avrà realmente fatto ciò, metterà in serio pericolo il suo posto. Colui poi che è stato consacrato, non dovrà ricavare nessun utile da una consacrazione fatta per commercio e dalla sua promozione; sia considerato, invece, estraneo alla sua dignità e all’ufficio, che ha ottenuto col denaro. Se poi si venga a sapere che qualcuno ha fatto da mediatore in cosi vergognosi e illeciti guadagni, anche costui, se fosse un chierico decada dalla propria dignità, se fosse un laico o monaco, sia scomunicato” (31).

VI.

Che ogni anno si celebri il sinodo locale.

Vi è un canone che dice: “Due volte all’anno bisogna riunire i vescovi di ogni provincia per discutere i problemi” (32). Però per il disagio, o perché i vescovi che devono riunirsi sono sempre in difficoltà quando devono mettersi in cammino, i santi padri del sesto sinodo hanno stabilito che “assolutamente e senza scuse si tenessero almeno una volta all’anno, per riformare ciò che ne ha bisogno” (33). Questo canone lo riconfermiamo anche noi; se poi vi sarà qualche autorità (civile) che intenda impedire ciò, sia privata della comunione; e se un metropolita, senza necessità, né impedimenti, né plausibili motivi, trascurasse di mettere in pratica questa prescrizione, sia assoggettato alle pene canoniche.

Quando poi il Sinodo tratta le questioni riguardanti i sacri canoni e gli Evangeli, i vescovi riuniti devono avere la massima cura di osservare i divini e vivificanti comandamenti di Dio: Nell’osservarli, infatti, è posta una grande ricompensa (34); perché il comandamento è una lucerna, e la legge una luce, e la correzione e la disciplina è la via della vita (35): il comandamento di Dio è luminoso e illumina gli occh (36). Il metropolita non ha il diritto di esigere qualche cosa di quelle che un vescovo avesse portato con sé, sia essa un giumento o altro. Se sarà provato che l’ha fatto, restituirà quattro volte tanto.

VII.

Bisogna completare le nuove chiese, consacrate senza le reliquie dei santi.

Dice il divino apostolo Paolo: I peccati di alcuni uomini si manifestano prima, quelli di altri dopo (37). Quindi ai peccati precedenti, seguiranno altri peccati. Per questo, all’empia eresia dei calunniatori dei cristiani, sono seguite altre empietà. Come infatti hanno tolto dalla chiesa la vista delle venerande immagini, cosi hanno abbandonato anche altre consuetudini, che bisogna ripristinare secondo la legislazione sia scritta, che solo tramandata.

Comandiamo che nelle chiese che sono state consacrate senza le reliquie dei santi martiri, venga fatta la deposizione delle reliquie, naturalmente con la consueta preghiera. Da oggi in poi un vescovo che consacrasse una chiesa senza reliquie, sia deposto per aver trasgredito le tradizioni ecclesiastiche.

VIII.

Non bisogna accogliere gli Ebrei che non si convertono sinceramente.

Poiché quelli che appartengono alla religione ebraica, errando, credono di potersi far beffe di Cristo Dio, fingendo di vivere da cristiani, e invece lo negano, celebrando di nascosto i loro sabati e seguendo altre pratiche giudaiche, disponiamo che costoro non debbano essere ammessi né alla comunione, né alla preghiera, né in chiesa. Siano apertamente Ebrei, secondo la loro religione! Stabiliamo anche che non si devono battezzare i loro figli, e che essi non possono acquistare né possedere servi. Se qualcuno di loro però, si convertirà con fede e con cuore sincero, e crederà con tutto il suo cuore, abbandonando i loro costumi e le loro azioni affinché anche altri possano essere ripresi e corretti, egli e i suoi figli potranno essere accolti, battezzati e aiutati perché si astengano dalle superstizioni ebraiche; altrimenti non siano ammessi.

IX.

Non si nasconda alcun libro dell’eresia che calunnia i cristiani.

Tutti i giuochi da bambini, sciocchi baccanali e falsi scritti, composti contro le sacre immagini, devono essere consegnati all’episcopio di Costantinopoli, perché siano sequestrati con gli altri libri eretici. Se si scoprirà che qualcuno li avrà nascosti, sia deposto, se vescovo, sacerdote o diacono; se laico o monaco, sia anatematizzato.

X.

Un chierico non deve lasciare la propria Parrocchia per un’altra, all’insaputa del vescovo.

Poiché alcuni chierici, eludendo le disposizioni canoniche, lasciano la loro parrocchia e corrono ad altre, specie in questa imperiale città cara a Dio e stanno presso i potenti, officiando le loro cappelle, essi senza il permesso del loro vescovo e di quello di Costantinopoli non devono essere accolti in nessuna casa o chiesa. Se qualcuno farà ciò, qualora perseverasse, sia deposto.

Quelli che col consenso dei suddetti vescovi fanno ciò non possono però occuparsi di affari mondani o secolari, lo proibiscono i sacri canoni. E se qualcuno avesse accettato le funzioni di maggiordomo la smetta o sarà deposto. Molto meglio sarebbe che costui istruisse i fanciulli e i domestici, leggendo loro le sacre Scritture: per questo, infatti, è stato fatto sacerdote.

XI.

Negli episcopi e nei monasteri debbono esservi degli amministratori.

Obbligati ad osservare tutti i sacri canoni, dobbiamo conservare immutato anche quello per cui vi deve essere in ogni chiesa un amministratore. Se, quindi, ogni metropolita costituisce questo economo nella sua chiesa, bene, altrimenti il vescovo di Costantinopoli ha il potere di imporre d’autorità a tale chiesa l’economo. Lo stesso possono fare i metropoliti nei riguardi dei vescovi loro sottoposti. La stessa norma deve essere osservata anche nei monasteri.

XII.

Il vescovo e l’abate non devono alienare i fondi della chiesa.

Se un vescovo o un abate dà una parte dei beni del vescovado o del monastero alle autorità o a qualche altra persona, la donazione è nulla, secondo il canone dei santi apostoli, che dice: “Il vescovo abbia cura di tutti i beni ecclesiastici, e li amministri come se Dio lo vedesse. Non gli è permesso appropriarsene o donare ai propri parenti le cose di Dio. Se essi sono poveri, provveda ad essi come poveri; ma non avvenga che, con la scusa di essi, venda i beni della chiesa” (38).

Se poi adducesse la scusa che la proprietà non dà alcun frutto, neppure in questo caso può darla ai signori temporali, ma solo a dei chierici o a dei contadini. Se poi il signore, con riprovevole astuzia comprasse la proprietà dal contadino o dal chierico, neppure cosi l’acquisto sarà valido e dovrà essere restituito al vescovado o al monastero. Il vescovo o l’abate che hanno operato in questo modo siano cacciati, hanno dissipato, infatti, quanto non avevano raccolto.

XIII.

Sono degni di condanna quelli che riducono i monasteri a comuni abitazioni.

Durante la calamità che ha colpito le nostre chiese a causa dei nostri peccati, alcuni episcopi e monasteri sono stati ridotti a comuni abitazioni di proprietà privata. Se i possessori credono di restituirle, perché siano riportate alla loro destinazione originaria, ottimamente!; in caso contrario, essi appartengono al clero, siano deposti; se sono monaci o laici, siano scomunicati: sono, infatti, già condannati dal Padre, dal Figlio e dallo Spirito santo; e siano destinati là dove il verme non muore, e il fuoco non si spegne (39), perché si oppongono alla voce del Signore: Non trasformate la casa del Padre mio in un mercato (40).

XIV.

Senza imposizione delle mani non si può leggere dall’ambone nelle liturgie.

L’ordine deve regnare nelle cose sacre e pertanto si osservino con diligenza i vari livelli del sacerdozio.

Dato che alcuni, che fin da bambini hanno ricevuto la tonsura clericale, senza altra ordinazione da parte del vescovo, leggono dall’ambone nelle adunanze liturgiche, contro i sacri canoni, ordiniamo che da questo momento ciò non sia più consentito, neppure ai monaci.

Tuttavia ciascun superiore di un monastero potrà creare un lettore nell’ambito del proprio monastero, se però egli stesso ha ricevuto l’imposizione dal vescovo ed è sicuramente prete. Ugualmente bisogna che i corepiscopi, secondo l’antica consuetudine, promuovano i lettori solo per comando del vescovo.

XV.

Un chierico non dev’essere addetto a due chiese.

D’ora in poi, un chierico non potrà essere addetto a due chiese: ciò, infatti, è proprio di chi desidera far commercio e turpe guadagno, ed è alieno dalle consuetudini ecclesiastiche. Abbiamo ascoltato, infatti, dalla stessa voce del Signore che uno non può servire due padroni,- o odierà uno e amerà l’altro, ovvero sarà favorevole all’uno, disprezzando l’altro (41). Quindi ognuno, conforme alla voce dell’apostolo: in ciò a cui fu chiamato, in questo rimanga (42), deve servire in una sola chiesa: quanto, infatti, nelle cose ecclesiastiche viene fatto per turpe guadagno è alieno da Dio. Per le necessità della vita, vi sono molte occupazioni: da queste, se uno vuole, si procuri ciò che è necessario alla vita. Dice, infatti, l’apostolo: Alle mie necessità e a quelle di coloro che sono con me, hanno provveduto queste mani (43).

Queste disposizioni valgono per questa città, che Dio ha in custodia. Per gli altri luoghi, considerata la penuria di soggetti, si sia più indulgenti.

XVI.

Un sacerdote non deve indossare vesti preziose.

I raffinati ornamenti del corpo sono estranei allo stato sacerdotale, perciò i vescovi e i chierici che si ornano con vesti lussuose e appariscenti, devono smetterla, altrimenti siano puniti. Ugualmente si dica di quelli che usano profumi.

Poiché la radice velenosa (44), lussureggiando ha contaminato la chiesa cattolica – intendiamo l’eresia di quelli che diffamano i cristiani – e quelli che l’hanno fatta propria non solo hanno in abominazione immagini dipinte, ma hanno rinunziato ad ogni segno di riverenza e detestano quelli che vogliono vivere religiosamente e piamente (e si avvera in essi ciò che è scritto: La Pietà à abominazione per il peccatore) (45); dunque, quelli che deridono chi indossa vesti semplici e sacre, siano puniti. Fin dai tempi antichi, i preti usarono vesti modeste e umili, perché tutto ciò che si usa non per necessità, ma per eleganza, non sfugge all’accusa di “frivolezza”, come afferma Basilio Magno (46). Allora non si usava neppure una veste di seta variopinta, né si ornavano i bordi dei vestiti con aggiunte di vario colore, attenti a ciò che Dio stesso aveva detto: quelli che sono vestiti mollemente, stanno nei Palazzi dei re (47).

XVII.

Non deve costruire un oratorio chi non avesse i mezzi Per condurlo a termine.

Alcuni monaci, smaniosi di comandare e senza alcuna voglia di obbedire, lasciano i loro monasteri e cominciano a costruire degli oratori, senza avere i mezzi per condurli a termine. Se qualcuno, quindi, tentasse di fare ciò, gli sia impedito dal vescovo del luogo; se però ha il necessario per terminare la costruzione, gli si lasci fare quanto ha in animo. La stessa norma vale per i laici e i chierici.

XVIII.

Le donne non dimorino negli episcopi o nei monasteri maschili.

Siate irreprensibili, anche con gli estranei, dice il divino apostolo (48). Che le donne dimorino negli episcopi o nei monasteri è causa di scandalo. Se perciò un vescovo o un abate hanno acquistato una serva o una libera per un qualsiasi servizio nell’episcopio o nel monastero, questi sia ripreso. Se persevera, sia deposto. Se poi le donne fossero nelle proprietà di campagna e il vescovo o l’abate volessero recarsi là, in quella circostanza non sia assolutamente permesso ad una donna di compiere il suo servizio presente il vescovo o l’abate, ma se ne stia in luogo appartato, finché se ne siano andati, perché non vi sia nulla da dire.

XIX.

Che le professioni dei sacerdoti, Monaci e monache debbano farsi senza doni.

Taluni rettori di chiese, anche alcuni che sono ritenuti pii, uomini e donne, dimenticando i comandamenti di Dio sono accecati dall’avidità al punto da ammettere sia al sacerdozio che allo stato di monaco per denaro. E quelli che hanno male incominciato, proseguono peggio, secondo l’espressione di Basilio Magno (49). Non si può servire Dio, infatti, per mezzo di mammona (50). Perciò se un vescovo o un abate o qualsiasi altro del ceto sacerdotale agsce cosi o cessi o sia deposto, in conformità del canone secondo del sacro concilio di Calcedonia. In caso poi che si tratti di una badessa sia cacciata dal monastero e sia relegata in un altro monastero, sottoposta ad altri. Cosi vengano trattati anche gli abati, che non sono sacerdoti.

Per ciò che i genitori danno come dote ai figli che entrano in monastero o per quanto essi portano, dichiarando di consacrarlo a Dio, stabiliamo che tali beni restino nel monastero, secondo la promessa fatta, sia che essi rimangano sia che se ne vadano, a meno che non vi sia colpa del superiore del monastero.

XX.

Non devono Più costituirsi monasteri doppi.

Stabiliamo che d’ora in poi non possano più fondarsi monasteri misti; ciò, infatti, si risolve per molti in scandalo e disorientamento. Se vi sono dei congiunti che intendono rinunziare insieme al mondo per la vita monastica, gli uomini devono andare in un monastero maschile, le donne in uno femminile, perché cosi piace a Dio.

I monasteri per uomini e donne esistenti, si attengano fedelmente alla regola del nostro santo padre Basilio (51), e si conformino alle sue disposizioni. Non vivano in uno stesso monastero monaci e monache, perché l’adulterio suole accompagnare la coabitazione. Il monaco e la monaca non abbiano possibilità parlarsi a tu per tu. Un monaco non dorma presso il monastero delle monache, e non si trattenga a mangiare da solo con una monaca. E quando da parte maschile devono esser fatti pervenire alle monache i generi necessari alla vita, questi siano presi in consegna dalla badessa del monastero delle donne fuori della porta, alla presenza di una monaca anziana. Anche nel caso che un monaco volesse vedere una sua parente, parli con lei alla presenza della badessa, con poche e brevi parole, e subito si ritiri.

XXI.

I monaci non devono lasciare i propri monasteri per recarsi in altri.

Un monaco o una monaca non devono lasciare il proprio monastero per recarsi in un altro. Se ciò avvenisse si deve ospitarli, ma non accoglierli stabilmente, senza il consenso del loro superiore.

XXII.

I monaci, se mangiano con donne, lo facciano con riconoscenza (a Dio), con moderatione e con cautela.

E’ gran cosa offrire tutto a Dio e non servire ai propri desideri. Sia, infatti, che mangiate, sia che beviate, dice il divino apostolo, fate ogni cosa a gloria di Dio (52). Cristo, nostro Dio, ci ha comandato nei suoi Evangeli di recidere gli inizi dei peccati: non solo ha proibito l’adulterio, ma ha condannato anche il moto del pensiero che tende all’adulterio. Dice, infatti, il Signore: Chi guarda una donna desiderandola, nel suo cuore ha già commesso adulterio con essa (53).

Ammaestrati da ciò, dobbiamo purificare i nostri pensieri: poiché se tutto è lecito, non tutto però è conveniente (54), come insegna la voce dell’Apostolo. E’ necessario, che ognuno mangi per vivere. Quelli che vivono nel matrimonio, hanno figli, e sono laici vivono insieme tra uomini e donne senza dare adito a critiche. Basta che ringrazino chi dà loro il cibo e non con spettacoli teatrali, con canti satanici, con chitarre e movimenti flessuosi delle membra degni di meretrici; questi saranno colpiti dalla maledizione del profeta: Guai a quelli che bevono il vino con suoni e canti, e non badano alle opere del Signore, né comprendono le opere delle sue mani (55). Se tra i cristiani vi è chi si comporta cosi, si corregga, altrimenti siano applicate loro le norme tradizionali.

Quelli, invece, che conducono una vita modesta e solitaria, perché hanno promesso al Signore di prendere su di sé un giogo singolare, questi se ne stiano fermi e in silenzio (56). Ma neppure a coloro che hanno scelto la vita ecclesiastica, è assolutamente lecito mangiare da soli con le donne; a meno che non sia presente qualcuno, pio e timorato di Dio, o qualche donna, di modo che lo stesso mangiare giovi al progresso spirituale. Identica norma si osservi con i parenti. Se però capita che in viaggio un monaco o un chierico non abbiano portato il necessario e, quindi deve alloggiare in un albergo o in casa di qualcuno, costui è libero di farlo, perché spinto dalla necessità.




TRACCE BIZANTINE: Madonna del Pilerio, Cosenza

tratto da un articolo di Riccardo Brunetti

II titolo ed il culto alla Madonna del Pilerio si fanno risalire comunemente all’anno 1576. Si può invece ritenere, almeno quanto al titolo, che siano di data molto più remota, se si considera che il Dipinto su tavola è un originale del XII secolo. Da documenti storici (l) risulta intanto che, tra il 1575-1576, un’orribile pestilenza infieriva per le molte regioni d’Italia, tra cui la Calabria e che la stessa Cosenza, non risparmiata dall’immane calamità, dovette lamentare moltissime vittime!

I Cosentini, minacciati da un tale flagello, cui non era possibile porre rimedio con risorse umane, fiduciosi, fecero ricorso a Dio ed ai Santi protettori, implorando misericordia. Ora avvenne che un giorno mentre un pio devoto, pregava con particolare fervore, dinnanzi ad un’antica Icone della Madonna (2), vide apparire all’improvviso sulla guancia sinistra della sacra Immagine una macchia simile a bubbone di peste. Immediatamente corse trepidante ad avvertire il Vicario generale dell’Archidiocesi  in quel periodo teneva le veci dell’Arcivescovo Andrea Matteo Acquaviva, che si trova da qualche tempo e che, colpito anch’egli dall’inesorabile morbo, lo stesso anno vi moriva  e veniva sepolto in S. Giovanni in Laterano, nel  sepolcro preparatogli dal nipote Card. Giulio Acquaviva (3). Il Vicario, seguito da Clero e numeroso popolo, accorse per verificare lo straordinario prodigio . Osservato il segno miracoloso si ebbe certo che con esso la Vergine Ss.  aveva voluto dimostrare di prendere quasi su di sé il flagello della peste, per liberarne i suoi figli e devoti, «alla stessa guisa, annota il Botta, del Redentore divino, che assunse sé per la sua passione e morte tutti i peccati  degli uomini». Cosi confermarono infatti gli eventi che seguirono. Da quel momento il contagio cominciò a regredire, poi man mano cessò del tutto. Gli stessi ammalati e quelli appena affetti dal ferale morbo sollecitamente e felicemente guarirono. Questo prodigio strepitoso(4) spinse il Popolo a dare fin d’allora alla Vergine della Cattedrale di Cosenza il titolo di Protettrice della Città (5).  La notizia non tardò a divulgarsi per i dintorni. Dai Casali circostanti, dalle campagne e dai paesi vicini fu un ininterrotto e crescente accorrere di pellegrini, i quali venivano per vedere il prodigioso Dipinto e per invocare la Madonna di Cosenza. Tali pellegrinaggi continuarono nel tempo e  gradatamente crebbero di numero e d’intensità tanto che, nel 1603, dopo più di cinque lustri dall’evento miracoloso, l’Arcivescovo mons. Giovanni Battista Costanzo (1591-1617), per meglio favorire l’afflusso dei pellegrini, fece rimuovere il sacro Dipinto dal sito dove trovavasi per farlo collocare, dapprima su di un pilastro del Duomo, indi sull’altare maggiore ed infine, quattro anni dopo, nel 1607, nella Cappella “de’ li Pilieri”, dove era stata disposta la costruzione di un altare, come è documentato da un atto del notaro Giacomo Mangerio del 20 giugno1602 (6). Agevolmente da ciò può dedursi che il titolo “Pilerio” è certo anteriore all’avvenimento del 1603,  la  collocazione cioè del  Quadro sul pilastro del Duomo. Quindi il titolo “Pilerio” non sarebbe derivato dal gesto dell’appoggiarlo sul pilastro o colonna del Duomo.

A tal punto, è opportuno far rilevare, gli storici, i quali si sono occupati della vicenda, si siano, ovviamente, limitati a riferire soltanto i fatti e le circostanze concomitanti e susseguenti il prodigioso evento del 1576 e null’altro. Difatti nessuno di essi, sembra, abbia fatto riferimento alcuno all’origine, valore artistico e vetustà del Dipinto e del Titolo; cose queste peraltro rimaste inspiegabilmente nell’ombra e nel silenzio secolare, fin quasi ai nostri giorni. Devesi alla fervida inventiva e genialità  pastorale dell’illustre e dinamico Presule Enea Selis (1971-1979) l’iniziativa, certamente provvidenziale, di far curare dalla Soprintendenza ai Beni Ambientali, Architettonici, Artistici e Storici della Calabria, il restauro dell’Icona bizantina della Madonna del Pilerio, ritenuta comunemente «un dipinto su tavola e copia, per giunta rimaneggiata, di un’immagine della Madonna, di non rilevante valore artistico». Il restauro era stato richiesto in vista ed in ordine alla ricorrenza del IV Centenario del miracolo (1576-1976), che il Presule mons. Selis intendeva commemorare con particolari festeggiamenti, secondo un suo geniale stile, così come aveva già fatto nella ricorrenza del 750° anniversario della Consacrazione del Duomo (1222-1972), all’inizio del suo governo episcopale. Tutti quelli, che ebbero la ventura di presenziarli, ricorderanno certo come, per l’intervento della Radiotelevisione, ne fu ripresa e diffusa in diretta sulla rete nazionale in tutta Italia la solenne cerimonia e la visione delle strutture interne del nostro Duomo. Per quanto poi si riferisce al restauro del dipinto fu la felice occasione della sorprendente scoperta e ricognizione. La sacra Icona risultata essere «un dipinto originale di pregevole artistica fattura del secolo magistralmente riportato al suo primitivo splendore bizantino» (7). Di ciò evidentemente con il trascorrere degli anni e per averla del tutto alterata, per il vezzo o mania, talora ricorrente, di abbellire opere d’arte, se n’era perduta la memoria. A tal punto riesce più agevole risalire all’origine del sacro dipìnto e del titolo, rimando indietro nel tempo e nel contesto storico onde poterne determinare l’epoca e la primitiva collocazione. Alcuni studiosi oggi sostengono con argomentazioni valide che si tratta di “antica icona bizantina su legno” posta al di fuori del nostro Duomo, probabilmente presso una delle porte della città, a custodia e difesa di essa. Citiamo perciò uno scritto di Elio Vivacqua (8), il quale fa anche riferimento ad un altro sullo stesso argomento del compianto prof. Serravalle: — «Che l’Immagine della Madonna del Pilerio, venerata nella Cattedrale di Cosenza, sia di molto anteriore alla dominazione spagnola tra noi, con la pace di Cateau Cambrèsis, è un fatto ammesso da tutti».

Dunque Madonna del Pilerio, che si vorrebbe far derivare da “Pilar” = pilastro o colonna, non sembra verosimile. Insieme al Serravalle, scrive testualmente il Vivacqua “noi crediamo invece che il titolo e la devozione alla Madonna del Pilerio siano molto più antichi e quindi preesistenti alla peste del 1576”.

Ecco da che cosa lo si deduce:

  1. Dobbiamo ricordare che Cosenza, fin dal sec. IV, faceva parte dell’Eparchia greca della Calabria, quale suffraganea di Reggio. Inoltre è impossibile che essa non abbia  sentito l’influsso della vicina Rossano, capitale bizantina nei sec. X e XI.
  2. Nella liturgia bizantina la devozione alla Madonna ha un ruolo preponderante, ecco perché in quel periodo si solevano porre immagini della Vergine nei punti strategici, come a difesa del ponte  levatoio oppure alle porte della città.
  3. Nel contesto della religiosità greca o bizantina il titolo “Pilerio” non può dunque avere che una etimologia greca. E’infatti in greco “pule” significa porta e “puleròs” guardiano, custode della porta. Porre la Madonna a custodia della porta voleva dire riporre in Lei la fiducia di essere scampati da qualsiasi pericolo e quindi mettere la città sotto la sua materna protezione.

A riprova c’è un esempio illuminante a Rossano, dove una vetusta chiesina, che trovasi davanti ad una delle antiche porte della città, è dedicata alla Madonna del Pilerio».

 Note

(1) Andreotti D., Storia  dei  Cosentini, vol.   Il,  cap.10 & 3. • Botta C., Storia d’Italia, anno 1763, Pagnoni, Milano.

(2) N. B. È un dipinto su tavola, originale del secolo XII-XIII, esposto in un sito remoto del nostro Duomo o piuttosto all’esterno di esso o addirittura in una nicchia, presso una delle porte della città.                  

(3)Andreotti D., op.cit., Vol. Il p.329. Litta, Famiglie celebri d’Italia, Milano,1819-1880.
P. Russo F, Storia dell’archidiocesi di Cosenza, Rinascita Artistica Editrice, Napoli,1958.

(4)Botta C., op.cit

(5) Andreotti D., op. cit.    

(6) Archivio Notarile Statale, Cosenza, – Atti Notaro G. Mangerio, 1602.

(7) Relazione sul restauro del Quadro a cura della Sovrintendenza ai Beni culturali della Calabria. 1976.

(8) Vivacqua E., Le origini del culto della Madonna del Pilerio, Periodico “L’Unione” 31-3-1981, Cosenza.


LETTURA DELL’ICONA

Tratto da un articolo di Antonio Marchianò

Messaggio dell'Arcivescovo per la Festa della Madonna del Pilerio –  Arcidiocesi di Cosenza-Bisignano

L’icona misura 95 x 65 cm ed è stata eseguita in ambito mediterraneo occidentale; grazie alle sue caratteristiche iconografiche è definita “bizantina”. La tavola su cui è rappresentata la Vergine che allatta il Bambino ha subito nel tempo vari rimaneggiamenti, ma anche danneggiamenti, fino ad essere stata completamente ridipinta. Solo con i restauri voluti dall’arcivescovo Mons. Enea Selis nel 1976-77 ed eseguiti presso la Sovrintendenza per i Beni culturali è stata ripristinata la bellezza originale, che ha permesso una lettura approfondita della immagine dipinta sul legno. L’icona infatti fino ad allora era considerata di scarso valore artistico, e solo una mera riproduzione di una più antica icona medievale. Secondo la Di Dario Guida, l’icona sembra essere stata eseguita durante l’ultimo scorcio della dominazione Sveva. Risulta come uno dei prodotti artistici più rilevanti di un vasto movimento artistico e culturale che subì sia gli influssi del “bizantinismo aulico delle opere messinesi del XIII secolo, sia le affinità delle ricerche plastiche perseguite dai maestri toscani pre-cimabueschi ”L’icona si inserisce, inoltre, in una linea che unisce, dal punto di vista artistico, Monreale, Messina e la Campania.

Partendo dalla figura della Vergine rappresentata possiamo affermare, confortati da autorevoli studi, che l’immagine è la sintesi tra una Galaktotrophousa (Colei che dona il latte) e la Kikkotissa (Vergine dal rosso manto). I due particolari pittorici relativi all’allattamento del Divin Bambino e del Maforiuòn (manto rosso) emergono nella loro immediatezza appena ci si accosta all’icona.

L’icona è avvolta da una luce tutta particolare che emerge dallo sfondo oro che simboleggia la gloria di Dio che tutto abbraccia. La grazia trasfigura la creatura nella quale “abita l’Altissimo”. Tutte le icone, ma particolarmente quelle della Madre di Dio, sono accompagnate dall’oro che indica il progetto e l’iniziativa di Dio, la gloria scende e prende possesso della tenda. Anche il rosso del velo che scende dal capo e il porpora dell’abito di cui Maria è rivestita sono simboli della divinità che “avvolge” la giovane di Nazareth e ne coinvolge mente e cuore. Il colore porpora dell’abito richiama anche la dimensione sacerdotale e regale ma soprattutto la “potenza dell’Altissimo” di cui l’Angelo annunziante le parla quando le propone il grande progetto della salvezza e della maternità. Il velo rosso che scende sulla spalla vuole significare che la Vergine Maria è stata “avvolta” dall’alto e ricoperta dalla grazia. Il marrone della veste della Vergine è richiamo della sua umanità, mentre l’altra parte di manto di colore blu che avvolge la donna, ed avvolge anche gli abiti, indica il privilegiato rapporto con Dio di questa creatura. Base di ogni colore è il bianco che in tutta la tavola esprime la purezza, l’immacolato concepimento della Vergine. Esso si intravede sulla fronte, nella manica del braccio sinistro ed è l’abito che ella indossa sotto tutti gli altri. Le tre stelle, secondo l’iconografia classica bizantina, sono collocate una sulla fronte e due ai lati sulle spalle. Esse indicano che Maria è inabitata dalla Trinità ma anche la sua Verginità prima, durante e dopo il parto. I medaglioni dorati intorno al capo della Vergine sono undici. Rappresentano la Chiesa Apostolica senza l’apostolo Giuda che aveva tradito il Signore. Questo particolare stellario indica Maria presente nel Cenacolo di Gerusalemme, accanto agli Apostoli, proprio nei giorni e nelle ore della Pasqua fino alla Pentecoste. Le scritte in latino (MR e DOMINI) collocate rispettivamente a sinistra e a destra dell’immagine come prescritto dal Concilio di Nicea (787d.C) indicano la maternità divina di Maria. L’aureola sul capo del Divino Bambino contrassegnato dalla croce è un chiaro richiamo alla Passione di Cristo e al suo regnare glorioso. Il mistero dell’Incarnazione infatti è strettamente collegato con quello della Redenzione. Un ultimo segno che appare sulla tavola è la macchia scura sul volto della Vergine. È il segno della peste di cui Maria si è caricata per liberare miracolosamente la città di Cosenza afflitta dal terribile morbo e di cui storia e devozione popolare sono ancora testimoni. La Vergine Maria regge il Bambino tra le braccia e Gesù è seduto delicatamente sulla mano destra; essa diventa per lui quasi un trono da cui regna. Un drappo rosso posto tra le mani della Madonna richiama la sua signoria, la sua potestà regale e sacerdotale, la sua divinità. Non è escluso anche il richiamo alla Passione. Gesù che prende il latte dalla mammella diventa un particolare iconografico molto evidente: c’è una stretta tensione tra Cristo che è capo della Chiesa e il suo corpo mistico, di cui Maria ne è icona perfetta. Alcuni studiosi vedono proprio nella posizione del collo piegata verso il Bambino questa strettissima dipendenza e questo stretto rapporto tra Gesù e Maria, tra Cristo e la Chiesa. L’iconografia del seno si chiarisce ancora di più se la Vergine è colta nella dimensione di nutrice dei figli (Colei che nutre, imbandisce il banchetto, la mensa) fino a diventare, come la invoca la Chiesa ortodossa,
Trapeza, evidente richiamo alla mensa eucaristica. Il Bambino è rappresentato con due addomi, strettamente legati da una fascia rossa intrecciata, ad indicare che le due nature umana e divina che sono unite in Cristo. Nella piccola fascia rossa intrecciata alcuni hanno intravisto anche un prolungamento del cordone ombelicale che unisce il figlio (divino) alla Vergine (madre) per esprimere visivamente il titolo di Madre di Dio (Theotòkos) inciso sulla tavola. Copre il Bambino un trasparente velo bianco che ricorda la divina purezza di Cristo agnello senza macchia che toglie i peccati del mondo e riscatta con l’effusione del suo sangue l’intera umanità dalla schiavitù, dai peccati e dalla morte. La Vergine come in ogni antica icona indica con la mano sinistra il figlio, si fa Odigitria (indica la Via) per tutti coloro che guardano la sua immagine e che potrebbero cadere nella tentazione di fermare lo sguardo su di lei. Le dita delle mani indicano anche alcune verità di fede: le tre dita della mano destra richiamano il mistero trinitario e ancora il parto verginale di Maria toccata dal mistero dell’Incarnazione; le due dita della mano sinistra invece indicano la doppia natura umana e divina di Cristo.

Bibliografia
Di Dario Guida M. Pia, Itinerario dell’arte dai Bizantini agli Svevi,
in “Itinerari per la Calabria”, ed. l’Espresso, Roma, 1983, p.157.
Di Dario Guida M. P., Cultura artistica della Calabria medievale, di Mauro Edizioni, 1978.
Frangipane A., Inventario degli oggetti d’arte d’Italia, II – Calabria, Roma 1933, p. 121.
Leone G., Icone della “Theotokos” in Calabria, Ed. Vivarium 1990
Leone G., Icone della “Teotokos” in Calabria, in “Concilio Niceno II e l’iconografia mariana in Calabria”, atti del convegno, Cz, 1987, a cura di Squillace M., Edizioni Vivarium,Catanzaro, 1990, pp.119 e ss.
Napolillo V., Storia e fede a Cosenza, la Madonna del Pilerio, Edizioni Santelli, Cosenza, 2002, p.13.
Tuoto G., La Madonna del Pilerio, Leggenda, Cosenza 2001, p. 32.
Vitari S., Il Duomo di Cosenza, in Bilotto L., Il Duomo di Cosenza, Effesette, Cosenza, 1989, p.101.