Primato di Roma, contestazioni africane

Primato di Roma, contestazioni africane

Con [Papa] Celestino l’affermazione del primato [romano] diventò più esplicita, sia nell’ambito disciplinare che in quello dottrinale. La crisi nestoriana gli offrì l’occasione per rivendicare con forza al successore di Pietro il ruolo di custode supremo della fede della Chiesa universale. In verità né Nestorio né Cirillo nel corso del 429 interpellarono Celestino perché gli riconoscessero precisamente un primato sulla Chiesa universale. Ma egli si sentì investito della questione nestoriana proprio quale detentore della suprema autorità nella Chiesa, e questa funzione intese esercitare quando nel 430 fece conoscere agli orientali la sua sentenza contro Nestorio, e quando nel 431 inviò delegati al Concilio di Efeso «… con il compito di dare esecuzione a ciò che Noi abbiamo stabilito». Successivamente, Celestino nella lettera ai Costantinopolitani dopo il Concilio espresse la certezza che la sconfitta di Nestorio fosse da attribuire al suo intervento di medico che aveva reciso con i ferri chirurgici un membro infetto: «… il beato apostolo Pietro non ha abbandonato uno che era tanto gravemente malato». In realtà i legati papali giunsero a Efeso quando il Concilio aveva già sanzionato la condanna di Nestorio sotto la guida di Cirillo di Alessandria, che aveva provveduto a far leggere e approvare la propria lettera dogmatica a Nestorio, e non quella di Celestino. La lettera di Celestino a Nestorio fu letta solo in una successiva sessione, su richiesta, è da credere, dei legati.

Se in Oriente si tendeva a tributare a Roma niente di più che l’onore che meritava l’antica prestigiosa Sede apostolica, in Occidente particolarmente le Chiese d’Africa e della Gallia opposero vivace resistenza al riconoscimento dell’autorità giurisdizionale di Roma.

La lettera 209 di Agostino a Celestino, dell’inizio del 423, ci rappresenta un primo caso di attrito fra la Chiesa di Roma e quella d’Africa sotto il pontificato di questo Papa. Qualche anno prima, Agostino aveva deciso di dare un vescovo alla grossa borgata di Fussala, che aveva abbandonato il donatismo per tornare in seno alla Chiesa cattolica, e che non poteva essere agevolmente governata da Ippona a motivo della distanza. Il presbitero prescelto, quando tutto era ormai pronto per l’ordinazione e i vescovi consacranti erano già giunti da lontano, si ritrasse, e Agostino sul momento candidò un giovane lettore, Antonio, che ben conosceva, essendosi preso cura della sua educazione fin dalla fanciullezza. La sua ordinazione fu gradita ai Fussalesi, ma il nuovo vescovo diede prova di grande avidità, tanto che gli abitanti della borgata, stanchi di doverne fare le spese, lo denunciarono. Un concilio provinciale non trovò motivo sufficiente per privarlo dell’episcopato, ma decretò che egli dovesse restituire il maltolto, pena la scomunica, e che fosse allontanato da Fussala. Antonio dapprima accettò la sentenza, ma poi decise di appellarsi a Roma, riuscendo anche ad ottenere l’appoggio del primate di Numidia, che inviò a Roma una lettera di raccomandazione. Papa Bonifacio, pur con una clausola condizionale: «Se ci ha narrato lo svolgimento dei fatti con fedeltà», rimandò Antonio assolto senza interpellare Agostino. Questi rimase costernato per la decisione romana, e fece ricorso a Celestino, che nel frattempo era succeduto a Bonifacio, con una lettera vibrante d’emozione, ove si addossò la responsabilità dell’accaduto, ma difese la legittimità della sentenza emessa dal tribunale africano, dichiarando di volersi dimettere dall’episcopato, se Roma non avesse riveduto la propria decisione sul caso. Non sappiamo come la vicenda si concluse, ma è da credere che la lettera di Agostino abbia trovato ascolto, tenuto anche conto che il suo prestigio era grande ormai in tutto l’Occidente e che Celestino in seguito attesterà ufficialmente la sua stima per il dottore d’lppona.

Apiario era un prete di Sicca Veneria che per la sua condotta morale riprovevole fu scomunicato dal proprio vescovo. Si appellò a Roma, violando così gli statuti della Chiesa d’Africa che vietavano tali appelli. Papa Zosimo, che invece intendeva riaffermare il diritto primaziale della sede romana di ricevere ricorsi da tutte le Chiese d’Occidente, accolse l’appello e fece riaccompagnare Apiario in Africa da una legazione capeggiata da Faustino di Potenza Picena, che avrebbe dovuto ribadire ai vescovi d’Africa le prerogative di Roma. Nel Concilio di Cartagine appositamente convocato (a. 419) fu letta la lettera che Zosimo aveva affidato ai propri legati, ove a sostegno del diritto di appello alla sede romana si invocavano i canoni del Concilio di Nicea. I vescovi obiettarono che i documenti niceni, che essi possedevano, non contenevano tali disposizioni: in effetti i canoni citati da Zosimo appartengono al Concilio di Serdica. Tuttavia, su proposta di Agostino il Concilio di Cartagine accolse, per deferenza, la richiesta del vescovo di Roma, ma si riservò di chiedere alle sedi orientali (Costantinopoli, Antiochia e Alessandria) copie autentiche degli atti di Nicea. Apiario fu assolto, ma non fu riammesso nel clero di Sicca Veneria, bensì dovette trasferirsi a Tabraca, ove commise misfatti ancor peggiorò attirandosi una nuova scomunica. Di nuovo si recò a Roma, ove papa Celestino lo accolse volentieri, e di nuovo lo fece riaccompagnare in Africa da una legazione guidata dal medesimo Faustino di Potenza Picena. Ma questa volta si verificò un colpo di scena. Apiario, messo alle strette dalle contestazioni dei giudici africani confessò le proprie malefatte. A Faustino non restò che chiedere scusa e tornarsene a Roma. Aurelio e altri vescovi, a nome del Concilio di Cartagine (a. 424-425), espressero a Celestino con parole pungenti il disappunto dei vescovi africani per l’accaduto, e sottolinearono che i documenti del Concilio di Nicea, nel frattempo giunti dalle sedi orientali, e inviati in copia anche a Roma, nulla contenevano circa il diritto della sede romana di ricevere i ricorsi di chierici o vescovi condannati in provincia. Riaffermarono il valore degli statuti della Chiesa d’Africa, che affidavano ai tribunali provinciali e, in seconda istanza, al Concilio generale d’Africa i procedimenti giudiziari su chierici e vescovi, ed espressero la loro opposizione alla pratica romana di inviare in provincia legati con potere giurisdizionale, perché estranea agli statuti e alla tradizione della Chiesa, e costituiva una riprovevole imitazione della prassi propria del potere politico.

Per quanto riguarda i rapporti della sede romana con le Chiese della Gallia, Celestino ricevette una difficile eredità. Zosimo aveva imprudentemente ceduto alle pretese di Patroclo, vescovo di Arles. Solo pochi giorni dopo l’elezione a vescovo di Roma gli aveva scritto la lettera Placuit apostolicae sedi con la quale attribuiva alla sede di Arles una sorta di primato su tutta la Gallia, che avrebbe reso inquieti non solo i rapporti della medesima sede con Roma, ma anche con le antiche sedi metropolitane transalpine. La lettera prescriveva che qualsiasi ecclesiastico della Gallia si fosse recato a Roma, sarebbe stato accolto solo se avesse presentato una lettera di comunione del vescovo di Arles, e inoltre stabiliva che spettasse al vescovo di Arles la nomina dei vescovi della provincia Viennese e delle due province Narbonesi. Patroclo esercitò con sempre maggiore invadenza i poteri che gli erano stati conferiti da Roma. Nel 425 la sua autorità fu anche rafforzata da disposizioni di Galla Placidia che così cercava di acquisire l’appoggio della sede di Arles per ristabilire il controllo imperiale sulla Gallia meridionale non ancora caduta in mano ai Goti. Nel 426 Patroclo fu assassinato, ma non venne meno il ruolo preminente di Arles, i cui vescovi concentrarono nelle proprie mani potere sia politico che ecclesiastico, e accentuarono la propria indipendenza dalla sede romana. Si aggiunga che i successori di Patroclo, Onorato e Ilario, diedero una particolare impronta al governo delle Chiese da essi controllate. Essi erano monaci provenienti dal monastero di Lérins, di cui Onorato era stato fondatore. Animati da forte spirito ascetico, vollero promuovere una riforma della disciplina ecclesiastica ispirandosi al rigorismo monastico. Anche esteriormente facevano mostra delle loro intenzioni, vestendo un “pallio” monastico. In conformità a tale orientamento sceglievano i vescovi non tra i chierici cresciuti in seno a quelle Chiese, ma tra i monaci che per lo più erano laici, oppure sceglievano persone straniere. L’intrapresa riformatrice diede anche maggiore spinta all’invadenza di Arles nelle questioni ecclesiastiche della Gallia. Ma nel 428 accadde un fatto che provocò un energica reazione da parte di papa Celestino. Un certo Daniele, presumibilmente un monaco, che in Oriente aveva commesso misfatti particolarmente turpi, si era rifugiato ad Arles. Contro di lui dall’Oriente pervenne a Roma una documentata denuncia. Celestino inviò ad Arles un suddiacono con la richiesta che l’accusato fosse inviato a Roma per il processo. Non solo la richiesta rimase inascoltata, ma Daniele fu addirittura nominato vescovo. Lo sdegno del Papa è espresso nella lettera ai vescovi delle province Viennese e Narbonese del 28 luglio 428, nella quale, tra l’altro, si dichiarano decaduti dalla dignità episcopale coloro che avevano promosso l’illecita ordinazione – l’indignazione del Papa era rivolta contro il vescovo di Arles (Onorato?), successore di Patroclo. […]

Contro la pretesa di primato della sede di Arles, Celestino è categorico: ribadisce l’obbligo di rispettare i confini delle province ecclesiastiche, riafferma l’autorità di ogni metropolita entro tali confini tradizionali e condanna ogni tentativo di usurpazione dei diritti altrui.

“[…] Dunque, dopo aver compiuto il dovere di esprimerti i nostri saluti, ti scongiuriamo grandemente a non dare ascolto troppo facilmente a coloro che di qui vengono a voi, né vogliate ancora accogliere nella comunione coloro che noi abbiamo scomunicato, perché la tua venerabilità può facilmente conoscere che questo ha stabilito il Concilio di Nicea. Infatti anche se ivi ci si premunisce riguardo ai gradi inferiori dei chierici o riguardo ai laici [1], tanto più il Concilio ha voluto che tale disposizione fosse osservata riguardo ai vescovi, cosicché coloro che sono stati sospesi dalla comunione nella propria provincia non siano troppo frettolosamente e indebitamente riammessi alla comunione. La tua santità, come è degno di te, rifiuti di dare asilo riprovevole ai presbiteri e ai chierici che li seguono, perché in nessuna definizione dei padri della Chiesa africana è stato sancito qualcosa di diverso da questa regola e i decreti di Nicea chiarissimamente hanno affidato sia i chierici di grado inferiore che i vescovi medesimi ai propri metropolitani. Infatti con grande saggezza e giustissimamente giudicarono che tutti i casi dovessero essere definiti ove erano sorti, e che a nessuna provincia sarebbe mancata la grazia del Santo Spirito, la quale avrebbe consentito ai sacerdoti di Cristo di vedere l’equità e seguirla con grande costanza, soprattutto perché ognuno ha la facoltà, nel caso che sia stato colpito da ingiusta sentenza dei giudici, di appellarsi al Concilio della propria provincia o anche a quello universale:

a meno che qualcuno non creda che il nostro Dio possa concedere a uno qualsiasi l’ispirazione per indagare secondo giustizia e negarla a innumerevoli vescovi riuniti in concilio.

D’altra parte, come il processo stesso potrà svolgersi oltre mare, dal momento che non sarà possibile addurvi i testimoni, che devono essere presenti di persona, sia a motivo del sesso, sia per gli acciacchi della vecchiaia che per altri numerosi ostacoli che possono intervenire? Il fatto poi che la tua santità mandi qualche collaboratore, troviamo che non è conforme ad alcuna norma stabilita da qualche concilio dei nostri padri. Infatti quei documenti che in passato ci avete trasmesso tramite il medesimo Faustino nostro collega vescovo, come se facessero parte del Concilio di Nicea, nei codici assolutamente autentici, che vanno sotto il nome di Concilio di Nicea e come tale sono accettati, i quali ci sono stati mandati dal santo Cirillo nostro collega vescovo della Chiesa di Alessandria e dal venerabile nostro collega sacerdote Attico di Costantinopoli – tali documenti in passato sono stati da noi trasmessi al vescovo Bonifacio di venerabile memoria vostro predecessore tramite il presbitero Innocenzo, che aveva portato i suddetti codici, e il suddiacono Marcello – non abbiamo potuto trovare niente di simile.

E nemmeno vogliate mandare chierici esecutori, chiunque sia che li chiede, non vogliate accordarli, affinché non sembriamo introdurre il fumoso orgoglio del mondo nella luce della Chiesa di Cristo, la quale mostra a coloro che desiderano vedere Dio il giorno della semplicità e dell’umiltà. Infatti, quanto al nostro fratello Faustino (dato che Apiario è già stato dolorosamente rimosso per i suoi nefandi misfatti), siamo sicuri che, in conformità alla probità e alla moderazione della tua santità, fatta salva la carità fraterna, l’Africa non lo dovrà più assolutamente sopportare”.

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NOTA:

[1] I vescovi africani si riferiscono al can. 5 del Concilio di Nicea: «Quanto agli scomunicati, sia ecclesiatici che laici, la sentenza dei vescovi di ciascuna provincia abbia forza di legge secondo la norma per cui chi è stato scomunicato da alcuni non sia accolto da altri» (G. Alberigo et alii, COD, Bologna 19913, p. 8), La sentenza di scomunica, se si trattava di un vescovo, doveva essere presa da un sinodo provinciale, che si doveva tenere due volte all’anno, prima della Quaresima e in autunno, e non era prevista la possibilità di appello a Roma: «Tale scomunica resterà fino a che l’assemblea dei vescovi o il vescovo stesso non ritenga di formulare una sentenza più mite» 0ibid.). In Africa il Concilio “universale” a cui il condannato poteva fare appello si doveva riunire ogni anno (Breviarium Hippon. 5, CCSL 149, p. 34). I canoni 105 e 125 del codice della Chiesa d’Africa proibiscono esplicitamente a preti, diaconi e chierici minori di fare ricorso oltremare (ibid., p. 218). I vescovi di fatto preferivano appellarsi alla corte imperiale.

Resti della grande basilica cristiana di san Cipriano

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