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L’IMPORTANZA DELLA BIBBA LXX (dei Settanta)

LA VERSIONE GRECA DEL VECCHIO TESTAMENTO:
LA SETTANTA

Introduzione al libro: Il Salterio della Tradizione. L. Mortari, GRIBAUDI

Il prologo del libro del Siracide (o Ecclesiastico) ci attesta che, attorno al 135 a. C., il Vecchio Testamento era già stato quasi tutto tradotto dall’ebraico in greco. Alcune fonti del giudaismo alessandrino raccontano dei particolari molto interessanti sull’origine della versione della Torah, la Legge, cioè il Pentateuco. Fonte primaria a questo riguardo è la cosiddetta Lettera di Aristea48, che si può riassumere a grandi linee così: un alessandrino di nome Aristea scrisse a suo fra­tello Filocrate raccontandogli come Demetrio, capo della famosa li­breria di Alessandria, aveva persuaso Tolomeo II Filadelfo (285-246 a. C.) a mandare una delegazione a Eleazaro, sommo sacerdote in Ge­rusalemme, con la richiesta di incaricare sei anziani di ogni tribù di Israele, segnalati per probità di vita ed esperti nella legge, di tradurre la Torah in greco. Demetrio aveva detto e ripetuto al re che questa legislazione era degna di essere tradotta (§ 10) perché «ben precisa, piena di sapienza e pura» (§ 31). I 72 anziani — divenuti poi 70 nella tradizione per analogia coi settanta saliti con Mosè sul monte secondo Es 24, 1 ss — si recarono da Gerusalemme ad Alessandria, accompa­gnati dagli alessandrini che erano stati inviati in delegazione a Geru­salemme, Aristea stesso e Andrea.

Vennero ad Alessandria portando la pergamena su cui la Torah in caratteri ebraici era incisa in oro. Fecero un banchetto di sette giorni durante il quale, interrogati dal re su varie questioni, risposero con sua piena soddisfazione mostrando la loro grande sapienza. Furono quindi condotti alla vicina isola di Faros e alloggiati in un edificio bello e tranquillo, preparato per loro, ove, in 72 giorni, completarono la traduzione, giungendo, mediante confronti, al pieno accordo su ogni punto (§ 302). Allora Demetrio radunò la popolazione giudaica e lesse a tutti la traduzione, che ottenne una «grandiosa accoglienza» (§ 308). Quindi, fra generali acclamazioni, fu pronunziata maledi­zione contro chiunque osasse apportare alla versione il minimo mu­tamento, o aggiunta, o sottrazione, «affinché fosse custodita perenne e fissa per sempre» (§ 311).

Evidentemente la Lettera non è priva di particolari leggendari, ma al di là di essi e della finzione di questa pseudo-lettera viene ricono­sciuto ormai al documento, col vastissimo consenso di studiosi di varia provenienza, ebrei e cristiani, «una certa quantità di materiale attendibile sulle origini della Settanta »49, una «considerevole parte di verità», così che la lettera è «lungi dall’essere antistorica»50. Una fonte giudaica della metà del II secolo a.C., il Frammento di Aristo­bulo, mostra che in quell’epoca era effettivamente già diffusa ad Ales­sandria la tradizione sull’origine della versione greca del Pentateuco per iniziativa di uno dei primi re Tolomei. Testimonianze posteriori aggiungono abbellimenti più o meno fittizi, ma insieme rivelano l’esi­stenza di tradizioni convergenti e indipendenti da Aristobulo e Aristea. Fra queste è attestata la celebrazione di una grande festa annuale all’isola di Faros per il grande dono al mondo ellenico della versione greca”.

Un grande studioso, Orlinsky, promotore da un qualche decennio di una seria rivalutazione della Settanta in campo ebraico, ha segna­lato ripetutamente nei suoi studi «un fatto poco noto sulla prima tra­duzione della Torah», cioè un antichissimo commento rabbinico (b Megillah 9b) che applica alla Settanta il versetto della Genesi: Possa Dio allargare Japhet – ed egli abiti nelle tende di Sem (9, 27). L’esten­dersi di Japhet, capostipite dei greci, sarebbe appunto la versione greca della Torah”.

È lo stesso Orlinsky a sottolineare come in vari punti della lettera di Aristea sia istituito un voluto parallelismo tra la vicenda della Set­tanta e la legge data al Sinai, più alcuni aspetti delle vicende succes­sive del popolo. La lettera afferma così l’equivalenza fra la legge della Settanta e la Torah ebraica. Ritroviamo la stessa affermazione in Filone di Alessandria, giudeo vissuto a cavallo dell’era cristiana. Per lui e per il giudaismo di lingua greca della diaspora non c’è dubbio che il testo greco non è meno autoritativo e canonico di quello ebraico usato dagli ebrei di Palestina”. Da notarsi anche che nel frattempo era stata completata o quasi la traduzione degli altri libri del Vecchio Testamento, oltre al Pentateuco, ed essi cominciarono a diffondersi tra il popolo, anche se all’ombra del Pentateuco, che manteneva un po­sto del tutto privilegiato ed era il solo ad essere «canonizzato dalla promulgazione ufficiale» nella letteratura alessandrina. Orlinsky con­clude che la versione greca era semplicemente la Bibbia dei giudei della diaspora e del tutto naturalmente è tale per i cristiani fin dal loro nascere Orlinsky si ferma qui; ma i cristiani sanno che la Bibbia greca che hanno ricevuto, insieme a quella ebraica, da Gesù e dalla comu­nità apostolica, è la base e la condizione del linguaggio del Nuovo Testamento e il ponte di passaggio obbligato tra le scritture ebraiche e il nuovo messaggio in greco; è il testo citato nella grande maggio­ranza dei casi nelle citazioni veterotestamentarie del Nuovo Testa­mento, anche là dove diverge dal testo ebraico; rappresenta la forma più avanzata e più ricca nella evoluzione del Vecchio Testamento. Lo stesso testo ebraico d’altronde già mostrava nel suo interno una evo­luzione: basti vedere la rilettura interpretativa dei libri dei Re fatta nelle Cronache, il salmo 17 rispetto a 2 Sam 22 ecc. A mano a mano che cresce il tempo di avvicinamento al Cristo, il testo stesso cresce, acquisisce nuovi elementi, evolve, si arricchisce; le scuole ispirate, rileggendo tutta la Bibbia, capiscono cose che non avevano capito prima e le determinano in una nuova forma. L’evoluzione è partico­larmente avanzata nella Settanta, che ha aperto vie nuove nella storia della salvezza e che, anche attraverso il nuovo strumento linguistico, completa e universalizza e inevitabilmente trasforma, arricchisce, e fa progredire la comunicazione della Parola”.

Fra gli ebrei però, dopo qualche secolo di favore per la versione greca, avvenne un profondo mutamento, fino a giungere a dire che il giorno in cui la Torah fu tradotta in greco fu come quello in cui Israe­le fece il vitello d’oro, perché la Torah non poteva essere tradotta adeguatamente”. Questo grande cambiamento è frutto di vari fattori: la distruzione del secondo tempio nel 70 d. C., l’annientamento della sovranità giudaica, la diffusione del cristianesimo con l’assunzione da parte dei cristiani della Bibbia greca come la Bibbia e come fonda­mento delle loro argomentazioni. A questo non solo contribuì la com­posizione prevalente delle comunità cui era proclamato l’Evangelo —comunità di lingua greca della diaspora ebraica o di popolazioni pa­gane — ma anche lo stato più avanzato della rivelazione divina di cui la Settanta è portatrice, la sua preparazione più diretta e la maggiore prossimità al Cristo. Il giudaismo disperso, riorganizzandosi pian piano sotto la guida dei farisei, si trincera dietro il testo ebraico per la difesa dell’antichità e della «ortodossia» giudaica e per la polemica contro i cristiani. Quanto ad essi invece, «si può dire che la Settanta ha costituito l’Antico Testamento per tutta la Chiesa fino alla metà del quarto secolo. Si può dunque affermare senza esagerazione che è proprio la Settanta a rappresentare l’Antico Testamento per tutta la fase creatrice della teologia patristica

Oltre alla consacrazione della Settanta — e non solo del Penta­teuco — fatta dal Nuovo Testamento, oltre al suo uso pressoché uni­versale nei primi secoli, abbiamo anche non poche dichiarazioni for­mali dei Padri sul valore da essi attribuitole. Basti qui citarne qualcuna, rimandando per il resto ad altri studi. Ireneo e Clemente Ales­sandrino vedono l’opera dei Settanta in continuità con quella di Esdra, che, ispirato da Dio, aveva restituito le Scritture integre. Ireneo di­ceva anche che «l’unico e medesimo Spirito, che nei profeti aveva annunciato l’avvento del Signore, nei [Settanta] anziani ha interpre­tato bene ciò che bene era stato profetato», e negli apostoli ha annun­ciato la pienezza dei tempi. E Clemente: «Niente di strano che l’ispirazione di Dio, dopo aver dato la profezia, ne abbia fatta anche la traduzione come profezia in greco».

Origene, rispondendo a Giulio Africano che obiettava contro le parti in più della Bibbia greca non aventi il corrispondente ebraico, dichiarava che «non bisogna spostare i confini stabiliti dai padri» (cf. Pr 22, 28), che le Scritture sono quelle che le Chiese di Cristo da più di due secoli leggevano come tali, donate dalla Provvidenza a edificazione di tutte le Chiese di Cristo, nella sollecitudine di Dio per tutti coloro che sono stati redenti dal sangue di Cristo.

Agostino attribuisce decisamente allo Spirito Santo le particolarità e le varianti stesse del testo greco rispetto a quello ebraico: «Tutto ciò che manca nei codici ebraici, mentre c’è nei Settanta, è il mede­simo Spirito che ha preferito dirlo con questi invece che con quelli, mostrando con ciò che entrambi erano profeti». E Giovanni Criso­stomo attribuisce alla divina dispensazione, all’economia dello Spiri­to, pur nella diversità dei carismi, l’ispirazione di Mosè e di Esdra, l’invio dei profeti, l’interpretazione dei Settanta.

Tutto questo è rimasto attuale fino ad oggi, senza alcun dubbio, nella Chiesa d’Oriente, mentre in Occidente è stata provocata una gravissima frattura da Girolamo che, dopo aver venerato egli stesso dapprima la Settanta, si buttò poi unilateralmente nel principio della veritas hebraica. Molto interessante su questo punto considerare la disputa con lui di Agostino, che esprime il suo dissenso, in favore delle Scritture usate dagli apostoli, venerate dalle Chiese, note e diffuse tra il popolo. Ago­stino racconta perfino che il vescovo di Ea (attuale Tripoli di Libia), avendo letto in chiesa un passo del profeta Giona nella versione di Girolamo dall’ebraico, contenente cose molto diverse dal testo «ormai fissato nel pensiero e nella memoria di tutti e così trasmesso per tante generazioni», provocò un tale tumulto che dovette tornare al testo precedente per non restare senza fedeli! Agostino, che pure apprezza moltissimo e loda più volte Girolamo come traduttore, gli dice però recisamente: «Non voglio che la tua versione dall’ebraico venga letta nelle chiese, perché, introducendola come una novità contro l’autorità dei Settanta, non turbiamo con grande scandalo i fedeli di Cristo, le cui orecchie e i cui cuori sono abituati ad ascoltare quella versione che è stata approvata anche dagli apostoli».

La rottura operata da Girolamo non si consumò che lentamente nella Chiesa latina, dove ancora per secoli in letture e testi liturgici e nei Padri troviamo in uso la Vetus latina, cioè le traduzioni latine fatte sulla Settanta anteriormente a Girolamo. Queste poi, nella forma ri­vista da Girolamo stesso, sono rimaste integralmente per i libri deu­terocanonici, i libri cioè scritti direttamente in greco e di cui manca, o mancava, l’originale ebraico, e che Girolamo, a un certo punto, per coerenza al principio dell’hebraica veritas, rigettò. La Chiesa invece risolse positivamente le dispute a loro riguardo e il problema da essi costituito; così ha continuato a custodirli e venerarli come libri sacri ed ispirati. In questo modo la Chiesa, optando per il canone della Settanta, ha attribuito a questa un’autorità così forte da impugnare il canone ebraico e accusare gli ebrei di aver contratto le Scritture.

Ma purtroppo Girolamo ha aperto la strada alla definizione prote­stantica del canone ridotto. Quanto alla versione latina dei protoca­nonici, cioè dei libri conservati in ebraico, in Occidente prese a poco a poco il sopravvento dall’antichità la traduzione bellissima di Giro­lamo dall’ebraico stesso, e la Settanta venne sempre più abbandonata. Nella Bibbia latina dunque, cui da qualche secolo è stato dato il nome di Vulgata, figurano i deuterocanonici tradotti dal greco e i protoca­nonici tradotti dall’ebraico.

RIFERIMENTI

S. JELLICOE, The Septuagint and Modern Study, Oxford 1968, p. 59. P, il parere di una delle più grandi autorità negli studi sulla LXX, scomparso da qualche anno, promotore di una organizzazione internazionale per lo studio della LXX, che pubblica dal 1971 un Bulletin e a cui si deve il progetto di uno strumento basilare che finora purtroppo mancava e che è in preparazione, un lessico della LXX.

H. M. ORLINSKY, The Septuagint. The Oldest Translation of the Bible, in Essays in Biblical Culture and Bible Translation, New York 1974, p. 366.

H. M. ORLINSKY, The Septuagint as Holy Writ and the Philosophy of the Translators, H1JCA 46 (1975), p. 97s, nota 12.

La lettera di Aristea a Filocrate, a cura di R. TRAMONTANO, Napoli 1931;

Adversus Haereses III, 21, 4, SC 211, p. 408-410.

Stromata I, 149, 3, SC 30, p. 152.

De civitate Dei 18, 43, PL 41, 604.

In Epistulani ad Hebraeos homiliae 8, 4, PG 63, 74

AGOSTINO, Ep. 71, Lettere 1, CN XXI, p. 566-569.




NICODIMO AGHIORITA: Proemio alla Filocalia

 

Prooemio al presente libro

Iddio, la Natura beata, perfezione al di là del perfetto, principio creatore di ciò che è buono e bello, buono al di là del buono e bello al di là del bello, Iddio, avendo dall’eternità prestabilito di deificare l’uomo, secondo la propria idea tearchica, ha sin dal principio, in precedenza, fissato in se stesso a suo riguardo questo scopo e lo ha realizzato nel tempo, conforme al suo beneplacito.

Egli, preso il corpo dalla materia, e infuso in esso l’anima prendendola da se stesso, la pose come una specie di mondo, grande per molteplicità di potenze e per dignità, in quello piccolo. E costituì l’uomo sorvegliante della creazione sensibile e iniziato a quella intelligibile, secondo quel grande nella teologia, Gregorio. E che altro è l’uomo, in verità, se non una statua, un’icona fatta da Dio, ripiena di tutte le grazie? E se così, anche presentandogli la legge di quel precetto – come una specie di prova del libero arbitrio – sapeva che alla fine avrebbe dovuto cedere ad essa, ma, come dice il Siracide: Lo lasciò in mano al suo consiglio, affinché scegliesse come credeva ciò che gli veniva presentato. Quale premio della lotta per il comandamento che egli avesse custodito, stabilì ricevesse la grazia della deificazione – già insita nella sostanza del suo essere – facendolo divenire Dio, raggiante per i secoli nella luce pura da contaminazione.

Ma, oh malvagia e perversa astuzia dell’invidia! Non sopportò colui che fin dal principio è l’autore del male, che queste cose fossero messe in opera. Per l’invidia concepita nei confronti del Fattore e della sua fattura – come dice il santo Massimo – del Fattore perché non divenisse manifesta secondo la sua operazione la gloriosissima potenza della bontà deificante l’uomo, della fattura perché non fosse rivelato che essa è partecipe di questa gloria soprannaturale della deificazione – con inganno l’ingannatore, sedotto l’uomo infelice, lo indusse con cosiddetti buoni consigli a trasgredire il precetto deificante. E dopo averlo allontanato, ahimè, dalla divina gloria, il ribelle pensava tra sé di essere un qualche vincitore dell’Olimpo, come se avesse così potuto impedire l’adempimento dell’eterno consiglio di Dio. Ma poiché, come hanno rivelato i divini oracoli, il consiglio di Dio a proposito della deificazione della natura umana rimane in eterno, e i pensieri del suo cuore di generazione in generazione, senza alcun dubbio quelle parole della Provvidenza e del Giudizio che mirano a tale scopo sono immutabilmente confermate sia per il secolo presente sia per quello futuro, secondo quanto ci espone il santo Massimo.

Alla fine dei giorni, per le viscere della misericordia, si è compiaciuto il Verbo sommamente tearchico del Padre, di rendere vani i pensieri dei principi delle tenebre, di realizzare e mettere in opera l’antico e verace consiglio che egli aveva prestabilito.

Pertanto, fattosi uomo con il compiacimento del Padre e la sinergia dello Spirito santo, assunse la nostra natura umana, la deificò: e dopo averci fatto dono dei suoi comandamenti salvifici e deificanti e aver seminato nei nostri cuori mediante il battesimo la perfetta grazia del suo Spirito santo – quale seme divino – ha dato a noi, secondo il divino evangelista, il potere – vivendo secondo i suoi vivificanti comandamenti, conforme alle diverse età spirituali e custodendo in noi stessi senza spegnerla la grazia, mediante la loro attuazione – di ottenere il frutto finale e di divenire per mezzo di questa grazia figli di Dio ed essere deificati, pervenendo all’uomo perfetto, alla misura dell’età della pienezza del Cristo. Questo infatti era, in breve, tutto il fine e il compimento dell’intera economia della Parola a nostro riguardo.

Ma, ahimè! è davvero bene gemere amaramente, come dice il divino Crisostomo! Infatti, di una tale grazia abbiamo fruito e di così nobili natali siamo stati fatti degni, che la nostra anima, purificata dal battesimo, per lo Spirito, più del sole risplendeva! Ma ricevuto un tale splendore deiforme da piccoli, poi in parte per ignoranza, per lo più accecati dalle tenebre delle cure di questa vita, a tal punto abbiamo coperto con le passioni questa grazia da rischiare di spegnere del tutto in noi lo Spirito di Dio e subire quasi la stessa sorte di quelli che avevano risposto a Paolo di non aver neppur saputo che ci fosse uno Spirito santo, e al punto di divenire come prima, secondo quanto dice il Profeta, quando la grazia non regnava su di noi.

Oh, la nostra infermità! Quale distruzione ha prodotto il male e il nostro eccessivo attaccamento alle realtà sensibili! Ma quello che stupisce è che anche se sentiamo da altri che questa grazia e operante, calunniamo per invidia e nemmeno crediamo che esista una operazione della grazia nel secolo presente. Che dire dunque? Lo Spirito dà la sapienza ai Padri sapienti in Dio e insieme alla perfetta sobrietà, alla vigilanza in tutto, alla custodia dell’intelletto, rivela anche il modo di trovare poi la grazia, in quanto cosa realmente mirabile e di altissima scienza. E questo consiste nel pregare ininterrottamente il Signore nostro Gesù Cristo Figlio di Dio, non semplicemente con l’intelletto, intendo, e con le labbra soltanto (perché questo è evidente in generale a tutti quelli che scelgono di vivere piamente ed è facile per chiunque): ma, dopo aver rivolto tutto intero l’intelletto verso l’uomo interiore – cosa mirabile – così all’interno, nella profondità stessa del cuore, invocare il santissimo nome del Signore e ricercare la sua misericordia, facendo attenzione solo e soltanto alle nude parole della preghiera, senza accogliere insomma null’altro né di interiore né di esteriore, per custodire il pensiero perfettamente libero da immagini e colori.

I punti di partenza di questa attività e, come direbbe qualcuno, la materia, li abbiamo avuti dallo stesso insegnamento del Signore che ora dice: Il regno di Dio è dentro di voi, ora: Ipocrita, purifica prima l’interno della coppa e del piatto e allora sarà puro anche l’esterno, cose queste che non sono da intendersi secondo i sensi, ma riferite al nostro uomo interiore. E anche l’Apostolo così scrive agli Efesini: Per questo piego le ginocchia davanti al Padre del Signore nostro Gesù Cristo… affinché dia a voi… di essere rafforzati con potenza mediante il suo Spirito nell’uomo interiore, perché il Cristo abiti mediante lo Spirito nei vostri cuori.

Che potrebbe esservi di più chiaro di questa testimonianza? E altrove dice: Cantando e salmeggiando nel vostro cuore al Signore. Senti? Dice: «nel cuore». Ma questo non è forse sostenuto anche dal Corifeo degli apostoli, quando dice: Finché non splenda il giorno e la stella del mattino non spunti nei vostri cuori?

Questo lo Spirito santo ce lo insegna come cosa necessaria per ogni fedele anche in innumerevoli altre pagine del Nuovo Testamento, come possono osservare quelli che su di esso si curvano con grande attenzione.

Da una tale attività – spirituale e sapiente – unita alla pratica, a tutti accessibile, dei comandamenti e delle altre virtù morali, mediante il calore che proviene al cuore dalla invocazione del Nome santissimo e la sua operazione spirituale, le passioni vengono divorate: il nostro Dio – infatti – è un fuoco divorante la perversità. L’intelletto e il cuore a poco a poco si purificano e si unificano in se stessi. E una volta che essi si sono purificati e unificati in se stessi, ne viene che i comandamenti salvifici vengono attuati con più facilità, i frutti dello Spirito spuntano nell’anima e tutta la somma dei beni viene copiosamente elargita. Infine, per «dirlo in breve, ci è in tal modo reso possibile ritornare in poco tempo a quella perfetta grazia dello Spirito che è stata donata sin dal principio nel battesimo, grazia che è in noi, confusa tra le passioni come favilla tra la cenere: ma una volta che essa viene in tal modo resa luminosamente splendente, ci è dato di vedere e di essere intelligibilmente illuminati, di essere conseguentemente perfezionati e successivamente deificati.

I Padri, nella maggior parte, fanno menzione di questa operazione della grazia solo sporadicamente nei loro scritti, come rivolgessero il loro discorso a chi già sa. Alcuni, prevedendo probabilmente in anticipo l’ignoranza, e insieme la negligenza della nostra generazione nei confronti di tale salutare esercizio, non hanno esitato a trasmettere a noi loro figli, come una eredità paterna, anche il modo pratico di questo esercizio, spiegandolo in forma particolareggiata mediante qualche metodo naturale. Alcuni con molti nomi lo magnificano e, chiamandolo principio di ogni altra attività gradita a Dio, somma dei beni, schiettissimo contrassegno di penitenza, pratica intelligibile che costituisce l’accesso alla vera contemplazione, spingono tutti al profitto che viene da quest’opera.

Ma qui comincio a gemere, e il dolore mi toglie la parola. Infatti questi libri che trattano la scienza di questa attività realmente atta a purificare, a illuminare e a perfezionare, come dice l’Areopagita, e non solo, ma anche molti altri che, trattando della vigilanza e della sobrietà, fanno udire a molti i temi della sobrietà, tutti insieme questi mezzi necessari, questi strumenti che tendono allo stesso proposito e all’unico scopo della deificazione dell’uomo – ecco che tutti questi libri, per l’antichità, la rarità e, lasciami dire, per non essere mai stati dati alle stampe, sono pressoché scomparsi; e se mai alcuni sono rimasti, essendo rosi dalle tarme e tutti rovinati, è quasi la stessa cosa che se non esistessero.

Aggiungerò che la maggior parte dei nostri vive in uno stato di negligenza e si agita per molte cose, cioè per le virtù del corpo o le virtù pratiche o, per parlare con maggior verità, per quelli che sono solo gli strumenti delle virtù, in cui essi consumano tutta la vita, ma dell’unica cosa necessaria, cioè della custodia dell’intelletto e della preghiera pura sono – non so come – accidiosi e altamente insipienti. C’è pericolo che questa breve e dolcissima attività venga meno del tutto e che in seguito a questo si oscuri e si spenga la grazia, e con essa venga pure a fallire la nostra unione con Dio e la sua operazione deificante. E questo era ciò che costituiva, come si è detto, sin dal principio, precedentemente a tutto, la volontà di Dio, nel suo beneplacito! Alla quale guardano, come a perfettissimo fine, sia la creazione che ci pone nell’essere, sia l’economia del Verbo di Dio a nostro riguardo, che ci pone nel ben-essere, nell’eterno ben-essere e, semplicemente, tutto quello che nell’Antico e nel Nuovo Testamento è stato divinamente compiuto.

Un tempo molti, anche di quelli che vivono nel mondo e gli stessi re e quelli che vivono nei palazzi reali e che sono ogni giorno tirati da miriadi di sollecitudini e cure di questa vita, avevano una sola ed unica opera: pregare continuamente nel cuore, come ne troviamo molti nelle storie! E ora invece, per negligenza e ignoranza, non solo presso quelli che vivono nel mondo, ma anche presso gli stessi monaci e quelli che fanno vita esicasta, ciò è rarissimo e – quale perdita, ahimè! – anche del tutto introvabile.

Mancando questo, per quanto ciascuno lotti secondo le sue possibilità e sopporti fatiche per la virtù, tuttavia non coglie alcun frutto. Perché senza l’incessante ricordo del Signore e senza quella purezza dell’intelletto e del cuore da ogni male che da esso nasce, è impossibile dar frutto. È detto infatti: Senza di me non potete far nulla, e ancora: Chi rimane in me, questi porta molto frutto.

Di qui deduco con certezza che non c’è altra causa per la quale tanto manchiamo di uomini chiari per santità in vita e dopo morte, e che sono così pochi quelli che si salvano in questo tempo, se non questa: che abbiamo trascurato quest’opera che conduce alla deificazione. Disse uno [dei santi Padri]: «Se l’intelletto non viene deificato, non è possibile per l’uomo non soltanto santificarsi, ma neppure salvarsi». E questo è terribile anche solo da udirsi, perché è la stessa cosa salvarsi ed essere deificati secondo le dichiarazioni di quelli che sono sapienti in Dio.

Inoltre, per di più, noi siamo privi di quei libri che guidano a questo. E senza questi, è impossibile giungere allo scopo.

Ma ecco: l’eccellente, buono e realmente amante di Cristo, Signor Giovanni Mavrogordatos, che non la cede a nessuno dei primi in fatto di liberalità, di amore per i poveri, di ospitalità e di tutto il coro delle virtù, eccolo sempre infiammato da zelo divinamente ispirato per il comune vantaggio! Proprio lui, ispirato dalla grazia di Cristo che vuole che tutti gli uomini siano salvati e deificati, muta il lamento in gioia, sciogliendo la difficoltà. Infatti ha messo a disposizione del bene comune questo strumento di deificazione e con tutta l’anima e – per così dire – con mani e piedi concorre e in ogni modo collabora per questa parte, a quello che è – come si è detto – l’eterno consiglio di Dio. Oh, quale gloria, quali grandezze! Ecco infatti che quei testi che nei tempi passati mai erano stati pubblicati, ecco che questi che giacevano in luoghi nascosti, nel buio, in qualche angolo, senza gloria, divorati dalle tarme, buttati e sparsi qua e là, ecco quei testi che ci guidano con scienza alla purezza del cuore, alla sobrietà dell’intelletto, al ravvivarsi della grazia che è in noi, aggiungi anche, alla deificazione, eccoli da lui raccolti in uno e dati alla grande e chiara luce dell’arte tipografica (bisognava, infatti, bisognava, che ciò che ci espone quanto riguarda la divina illuminazione, fosse fatto degno anche della luce della stampa!). E con questo egli libera quelli che sanno dalle fatiche del trascrivere e contemporaneamente risveglia anche in quelli che non sanno la brama di acquistare e direi anche di mettere in pratica.

Pertanto, o carissimo lettore, grazie all’ottimo Signor Giovanni, puoi d’ora in poi avere senza fatica e senza difficoltà il presente libro spirituale. Libro che è tesoro della sobrietà, guardia dell’intelletto, mistica scuola della preghiera spirituale. Libro che è un eletto modello di condotta pratica, guida sicura alla contemplazione, giardino dei Padri, catena d’oro delle virtù. Libro che è ripetizione frequente [del Nome] di Gesù, tromba che richiama la grazia e, per farla breve, proprio lo strumento stesso della deificazione, possesso mille volte più desiderabile di qualsiasi altro, da molti anni pensato e cercato ma non trovato. Per questo a te spetta il debito ineludibile – e dovuto per ogni motivo di giustizia! – di pregare Iddio con suppliche incessanti per il benefattore e i collaboratori, perché anch’essi pervengano alla stessa misura nella deificazione e, per essersi a questo scopo affaticati, per primi ne godano anche i frutti.

Ma, dopo le parole di questo discorso, qualcuno potrebbe forse interrompere affermando che non è lecito pubblicare certe cose che sono in questo libro alle orecchie di molti, in quanto cose inusitate: e ne potrebbe derivare un qualche pericolo.

A chi dicesse questo, rispondiamo dunque con poche parole. Neppure noi, caro amico, siamo venuti conformandoci ai nostri pensieri personali riguardo a questa impresa, ma piuttosto ci siamo serviti di esempi. Da un lato, del comando dato in modo generale a tutti i fedeli da parte della Scrittura, di pregare incessantemente e di aver sempre il Signore davanti agli occhi: ed è empio dire che i comandi dello Spirito siano soggetti a qualche proibizione o impossibilità, come dice il grande Basilio. Ci siamo basati sulla tradizione scritta dei Padri. Gregorio il Teologo consigliava a tutti quelli che dipendevano da lui, in generale, di rendere il ricordo di Dio più frequente del respiro. Il divino Crisostomo presenta tre discorsi interi sulla preghiera incessante e spirituale, e in innumerevoli punti degli altri suoi discorsi esorta tutti in generale a pregare continuamente. E quel mirabile Gregorio Sinaita, attraversando diverse città, insegnava la stessa attività salvifica. Ma infatti Dio stesso, mandando miracolosamente un angelo dall’alto, ratificò la medesima verità, chiudendo la bocca al monaco che contraddiceva, come si vede alla fine del presente libro.

Ma di che parole ho bisogno su questo argomento quando anche gli uomini che vivono nel mondo, che vivono nei palazzi reali, avendo – come si è detto – quale opera ininterrotta questo esercizio, a fatti confermano il discorso e bastano a chiudere la bocca ai contraddittori?

E se poi accade che taluni abbiano deviato, che c’è da stupirsi? Per presunzione, per lo più, costoro hanno subito questo, secondo Gregorio Sinaita. Io poi ritengo che il più delle volte la causa principale di simili deviazioni stia nel non aver seguito in tutto, con esattezza, l’insegnamento dei Padri intorno a questa attività. Essa è infatti santa e per suo mezzo dobbiamo essere liberati da ogni inganno: poiché anche il comandamento di Dio secondo la legge, quel comandamento che conduce alla vita, si è trovato – come dice Paolo – causa di morte per qualcuno! Eppure ciò non è avvenuto a motivo del comandamento. E come, infatti, se esso era santo, giusto e vero? È invece accaduto ciò a motivo della perversità di coloro che erano venduti sotto il peccato. E che, dunque? Bisogna accusare il divino precetto a motivo del peccato di alcuni? E per la deviazione di alcuni disprezzare quella attività salutare? In nessun modo, né per l’uno né per l’altra. Bisogna piuttosto por mano all’opera confidando in colui che ha detto: Io sono la via e la verità, con tutta umiltà e in una disposizione di afflizione spirituale. Se infatti uno si è liberato da ogni presunzione e ricerca di piacere agli uomini, anche se tutta la malvagia falange dei demoni irrompesse contro di lui, non arriverà neppure ad avvicinarsi, secondo l’insegnamento dei Padri.

Stando così le cose e poiché – come si è detto – il libro da ogni parte propone in tutte le maniere ciò che è perfetto, la cosa più opportuna resta ormai quella di prendere tra le mani quell’invito al banchetto della Sapienza, per chiamare tutti, con alto proclama, al convito di questo libro spirituale: quanti nelle cose di Dio non sono nemici del banchetto né, come quelli di cui si parla nei vangeli, prendono a pretesto campi, buoi, mogli! Venite, dunque, venite: mangiate il pane della sapienza che è in esso, questo pane sapienziale, e bevete il vino che spiritualmente allieta il cuore, vino che fa uscire da tutto ciò che è sensibile e insieme intelligibile, mediante la deificazione estatica. Inebriatevi di una ebbrezza veramente sobria! Venite, tutti quanti siete partecipi della vocazione ortodossa, monaci e laici insieme, voi che siete zelanti perché avete trovato il regno di Dio che è dentro di voi e il tesoro nascosto nel campo del cuore, che è il dolce Cristo Gesù! Venite, affinché una volta liberato il vostro intelletto dalla prigionia nelle cose di quaggiù e dal suo vagare, e purificato il cuore dalle passioni mediante l’incessante, tremenda invocazione del Signore nostro Gesù Cristo, siate unificati in voi stessi e, mediante questa unificazione interiore, a Dio, secondo l’invocazione che il Signore ha fatto al Padre dicendo: Affinché siano uno, come noi siamo uno. E così, uniti a lui e del tutto trasformati perché posseduti e tratti fuori di voi dall’amore divino, siate con ogni sovrabbondanza deificati, nel senso spirituale e con indubbia certezza e perveniate al primitivo scopo di Dio, glorificando il Padre, il Figlio e lo Spirito santo, una e tearchica Divinità.

A lui si addice ogni gloria, onore e adorazione per i secoli dei secoli. Amen.