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L’IMPORTANZA DELLA BIBBA LXX (dei Settanta)

LA VERSIONE GRECA DEL VECCHIO TESTAMENTO:
LA SETTANTA

Introduzione al libro: Il Salterio della Tradizione. L. Mortari, GRIBAUDI

Il prologo del libro del Siracide (o Ecclesiastico) ci attesta che, attorno al 135 a. C., il Vecchio Testamento era già stato quasi tutto tradotto dall’ebraico in greco. Alcune fonti del giudaismo alessandrino raccontano dei particolari molto interessanti sull’origine della versione della Torah, la Legge, cioè il Pentateuco. Fonte primaria a questo riguardo è la cosiddetta Lettera di Aristea48, che si può riassumere a grandi linee così: un alessandrino di nome Aristea scrisse a suo fra­tello Filocrate raccontandogli come Demetrio, capo della famosa li­breria di Alessandria, aveva persuaso Tolomeo II Filadelfo (285-246 a. C.) a mandare una delegazione a Eleazaro, sommo sacerdote in Ge­rusalemme, con la richiesta di incaricare sei anziani di ogni tribù di Israele, segnalati per probità di vita ed esperti nella legge, di tradurre la Torah in greco. Demetrio aveva detto e ripetuto al re che questa legislazione era degna di essere tradotta (§ 10) perché «ben precisa, piena di sapienza e pura» (§ 31). I 72 anziani — divenuti poi 70 nella tradizione per analogia coi settanta saliti con Mosè sul monte secondo Es 24, 1 ss — si recarono da Gerusalemme ad Alessandria, accompa­gnati dagli alessandrini che erano stati inviati in delegazione a Geru­salemme, Aristea stesso e Andrea.

Vennero ad Alessandria portando la pergamena su cui la Torah in caratteri ebraici era incisa in oro. Fecero un banchetto di sette giorni durante il quale, interrogati dal re su varie questioni, risposero con sua piena soddisfazione mostrando la loro grande sapienza. Furono quindi condotti alla vicina isola di Faros e alloggiati in un edificio bello e tranquillo, preparato per loro, ove, in 72 giorni, completarono la traduzione, giungendo, mediante confronti, al pieno accordo su ogni punto (§ 302). Allora Demetrio radunò la popolazione giudaica e lesse a tutti la traduzione, che ottenne una «grandiosa accoglienza» (§ 308). Quindi, fra generali acclamazioni, fu pronunziata maledi­zione contro chiunque osasse apportare alla versione il minimo mu­tamento, o aggiunta, o sottrazione, «affinché fosse custodita perenne e fissa per sempre» (§ 311).

Evidentemente la Lettera non è priva di particolari leggendari, ma al di là di essi e della finzione di questa pseudo-lettera viene ricono­sciuto ormai al documento, col vastissimo consenso di studiosi di varia provenienza, ebrei e cristiani, «una certa quantità di materiale attendibile sulle origini della Settanta »49, una «considerevole parte di verità», così che la lettera è «lungi dall’essere antistorica»50. Una fonte giudaica della metà del II secolo a.C., il Frammento di Aristo­bulo, mostra che in quell’epoca era effettivamente già diffusa ad Ales­sandria la tradizione sull’origine della versione greca del Pentateuco per iniziativa di uno dei primi re Tolomei. Testimonianze posteriori aggiungono abbellimenti più o meno fittizi, ma insieme rivelano l’esi­stenza di tradizioni convergenti e indipendenti da Aristobulo e Aristea. Fra queste è attestata la celebrazione di una grande festa annuale all’isola di Faros per il grande dono al mondo ellenico della versione greca”.

Un grande studioso, Orlinsky, promotore da un qualche decennio di una seria rivalutazione della Settanta in campo ebraico, ha segna­lato ripetutamente nei suoi studi «un fatto poco noto sulla prima tra­duzione della Torah», cioè un antichissimo commento rabbinico (b Megillah 9b) che applica alla Settanta il versetto della Genesi: Possa Dio allargare Japhet – ed egli abiti nelle tende di Sem (9, 27). L’esten­dersi di Japhet, capostipite dei greci, sarebbe appunto la versione greca della Torah”.

È lo stesso Orlinsky a sottolineare come in vari punti della lettera di Aristea sia istituito un voluto parallelismo tra la vicenda della Set­tanta e la legge data al Sinai, più alcuni aspetti delle vicende succes­sive del popolo. La lettera afferma così l’equivalenza fra la legge della Settanta e la Torah ebraica. Ritroviamo la stessa affermazione in Filone di Alessandria, giudeo vissuto a cavallo dell’era cristiana. Per lui e per il giudaismo di lingua greca della diaspora non c’è dubbio che il testo greco non è meno autoritativo e canonico di quello ebraico usato dagli ebrei di Palestina”. Da notarsi anche che nel frattempo era stata completata o quasi la traduzione degli altri libri del Vecchio Testamento, oltre al Pentateuco, ed essi cominciarono a diffondersi tra il popolo, anche se all’ombra del Pentateuco, che manteneva un po­sto del tutto privilegiato ed era il solo ad essere «canonizzato dalla promulgazione ufficiale» nella letteratura alessandrina. Orlinsky con­clude che la versione greca era semplicemente la Bibbia dei giudei della diaspora e del tutto naturalmente è tale per i cristiani fin dal loro nascere Orlinsky si ferma qui; ma i cristiani sanno che la Bibbia greca che hanno ricevuto, insieme a quella ebraica, da Gesù e dalla comu­nità apostolica, è la base e la condizione del linguaggio del Nuovo Testamento e il ponte di passaggio obbligato tra le scritture ebraiche e il nuovo messaggio in greco; è il testo citato nella grande maggio­ranza dei casi nelle citazioni veterotestamentarie del Nuovo Testa­mento, anche là dove diverge dal testo ebraico; rappresenta la forma più avanzata e più ricca nella evoluzione del Vecchio Testamento. Lo stesso testo ebraico d’altronde già mostrava nel suo interno una evo­luzione: basti vedere la rilettura interpretativa dei libri dei Re fatta nelle Cronache, il salmo 17 rispetto a 2 Sam 22 ecc. A mano a mano che cresce il tempo di avvicinamento al Cristo, il testo stesso cresce, acquisisce nuovi elementi, evolve, si arricchisce; le scuole ispirate, rileggendo tutta la Bibbia, capiscono cose che non avevano capito prima e le determinano in una nuova forma. L’evoluzione è partico­larmente avanzata nella Settanta, che ha aperto vie nuove nella storia della salvezza e che, anche attraverso il nuovo strumento linguistico, completa e universalizza e inevitabilmente trasforma, arricchisce, e fa progredire la comunicazione della Parola”.

Fra gli ebrei però, dopo qualche secolo di favore per la versione greca, avvenne un profondo mutamento, fino a giungere a dire che il giorno in cui la Torah fu tradotta in greco fu come quello in cui Israe­le fece il vitello d’oro, perché la Torah non poteva essere tradotta adeguatamente”. Questo grande cambiamento è frutto di vari fattori: la distruzione del secondo tempio nel 70 d. C., l’annientamento della sovranità giudaica, la diffusione del cristianesimo con l’assunzione da parte dei cristiani della Bibbia greca come la Bibbia e come fonda­mento delle loro argomentazioni. A questo non solo contribuì la com­posizione prevalente delle comunità cui era proclamato l’Evangelo —comunità di lingua greca della diaspora ebraica o di popolazioni pa­gane — ma anche lo stato più avanzato della rivelazione divina di cui la Settanta è portatrice, la sua preparazione più diretta e la maggiore prossimità al Cristo. Il giudaismo disperso, riorganizzandosi pian piano sotto la guida dei farisei, si trincera dietro il testo ebraico per la difesa dell’antichità e della «ortodossia» giudaica e per la polemica contro i cristiani. Quanto ad essi invece, «si può dire che la Settanta ha costituito l’Antico Testamento per tutta la Chiesa fino alla metà del quarto secolo. Si può dunque affermare senza esagerazione che è proprio la Settanta a rappresentare l’Antico Testamento per tutta la fase creatrice della teologia patristica

Oltre alla consacrazione della Settanta — e non solo del Penta­teuco — fatta dal Nuovo Testamento, oltre al suo uso pressoché uni­versale nei primi secoli, abbiamo anche non poche dichiarazioni for­mali dei Padri sul valore da essi attribuitole. Basti qui citarne qualcuna, rimandando per il resto ad altri studi. Ireneo e Clemente Ales­sandrino vedono l’opera dei Settanta in continuità con quella di Esdra, che, ispirato da Dio, aveva restituito le Scritture integre. Ireneo di­ceva anche che «l’unico e medesimo Spirito, che nei profeti aveva annunciato l’avvento del Signore, nei [Settanta] anziani ha interpre­tato bene ciò che bene era stato profetato», e negli apostoli ha annun­ciato la pienezza dei tempi. E Clemente: «Niente di strano che l’ispirazione di Dio, dopo aver dato la profezia, ne abbia fatta anche la traduzione come profezia in greco».

Origene, rispondendo a Giulio Africano che obiettava contro le parti in più della Bibbia greca non aventi il corrispondente ebraico, dichiarava che «non bisogna spostare i confini stabiliti dai padri» (cf. Pr 22, 28), che le Scritture sono quelle che le Chiese di Cristo da più di due secoli leggevano come tali, donate dalla Provvidenza a edificazione di tutte le Chiese di Cristo, nella sollecitudine di Dio per tutti coloro che sono stati redenti dal sangue di Cristo.

Agostino attribuisce decisamente allo Spirito Santo le particolarità e le varianti stesse del testo greco rispetto a quello ebraico: «Tutto ciò che manca nei codici ebraici, mentre c’è nei Settanta, è il mede­simo Spirito che ha preferito dirlo con questi invece che con quelli, mostrando con ciò che entrambi erano profeti». E Giovanni Criso­stomo attribuisce alla divina dispensazione, all’economia dello Spiri­to, pur nella diversità dei carismi, l’ispirazione di Mosè e di Esdra, l’invio dei profeti, l’interpretazione dei Settanta.

Tutto questo è rimasto attuale fino ad oggi, senza alcun dubbio, nella Chiesa d’Oriente, mentre in Occidente è stata provocata una gravissima frattura da Girolamo che, dopo aver venerato egli stesso dapprima la Settanta, si buttò poi unilateralmente nel principio della veritas hebraica. Molto interessante su questo punto considerare la disputa con lui di Agostino, che esprime il suo dissenso, in favore delle Scritture usate dagli apostoli, venerate dalle Chiese, note e diffuse tra il popolo. Ago­stino racconta perfino che il vescovo di Ea (attuale Tripoli di Libia), avendo letto in chiesa un passo del profeta Giona nella versione di Girolamo dall’ebraico, contenente cose molto diverse dal testo «ormai fissato nel pensiero e nella memoria di tutti e così trasmesso per tante generazioni», provocò un tale tumulto che dovette tornare al testo precedente per non restare senza fedeli! Agostino, che pure apprezza moltissimo e loda più volte Girolamo come traduttore, gli dice però recisamente: «Non voglio che la tua versione dall’ebraico venga letta nelle chiese, perché, introducendola come una novità contro l’autorità dei Settanta, non turbiamo con grande scandalo i fedeli di Cristo, le cui orecchie e i cui cuori sono abituati ad ascoltare quella versione che è stata approvata anche dagli apostoli».

La rottura operata da Girolamo non si consumò che lentamente nella Chiesa latina, dove ancora per secoli in letture e testi liturgici e nei Padri troviamo in uso la Vetus latina, cioè le traduzioni latine fatte sulla Settanta anteriormente a Girolamo. Queste poi, nella forma ri­vista da Girolamo stesso, sono rimaste integralmente per i libri deu­terocanonici, i libri cioè scritti direttamente in greco e di cui manca, o mancava, l’originale ebraico, e che Girolamo, a un certo punto, per coerenza al principio dell’hebraica veritas, rigettò. La Chiesa invece risolse positivamente le dispute a loro riguardo e il problema da essi costituito; così ha continuato a custodirli e venerarli come libri sacri ed ispirati. In questo modo la Chiesa, optando per il canone della Settanta, ha attribuito a questa un’autorità così forte da impugnare il canone ebraico e accusare gli ebrei di aver contratto le Scritture.

Ma purtroppo Girolamo ha aperto la strada alla definizione prote­stantica del canone ridotto. Quanto alla versione latina dei protoca­nonici, cioè dei libri conservati in ebraico, in Occidente prese a poco a poco il sopravvento dall’antichità la traduzione bellissima di Giro­lamo dall’ebraico stesso, e la Settanta venne sempre più abbandonata. Nella Bibbia latina dunque, cui da qualche secolo è stato dato il nome di Vulgata, figurano i deuterocanonici tradotti dal greco e i protoca­nonici tradotti dall’ebraico.

RIFERIMENTI

S. JELLICOE, The Septuagint and Modern Study, Oxford 1968, p. 59. P, il parere di una delle più grandi autorità negli studi sulla LXX, scomparso da qualche anno, promotore di una organizzazione internazionale per lo studio della LXX, che pubblica dal 1971 un Bulletin e a cui si deve il progetto di uno strumento basilare che finora purtroppo mancava e che è in preparazione, un lessico della LXX.

H. M. ORLINSKY, The Septuagint. The Oldest Translation of the Bible, in Essays in Biblical Culture and Bible Translation, New York 1974, p. 366.

H. M. ORLINSKY, The Septuagint as Holy Writ and the Philosophy of the Translators, H1JCA 46 (1975), p. 97s, nota 12.

La lettera di Aristea a Filocrate, a cura di R. TRAMONTANO, Napoli 1931;

Adversus Haereses III, 21, 4, SC 211, p. 408-410.

Stromata I, 149, 3, SC 30, p. 152.

De civitate Dei 18, 43, PL 41, 604.

In Epistulani ad Hebraeos homiliae 8, 4, PG 63, 74

AGOSTINO, Ep. 71, Lettere 1, CN XXI, p. 566-569.